ROMANZO VINCITORE DEL GARFAGNANA IN GIALLO 2018 PER IL MIGLIOR ROMANZO INEDITO
Se quattro corpi senza nome tornano alla luce dopo settanta anni; se uno di loro è quello del comandante partigiano Lupo, anche se non potrebbe esserlo; se tutti preferiscono dimenticare; se su una serie di delitti che insanguina il paese si allunga l’ombra di quella vecchia storia risalente alla guerra; se passato e presente si mescolano senza soluzione di continuità; se l’inaspettata soluzione dell’enigma è un capolavoro di razionalità e logica; se l’ultima parola di questa storia non è di condanna, ma di pietà…
Linea Gotica è un omaggio alla detective story, ma anche un romanzo storico che mescola la finzione narrativa con vicende realmente accadute, un’occasione per parlare della complessità delle relazioni tra le persone, ma anche per riflettere sul tema della Resistenza, la cui trasmissione della memoria – anche attraverso opere di finzione letteraria – si pone come uno dei possibili compiti della letteratura “cosiddetta” di genere, che da sempre ha fornito un apporto essenziale alla costruzione di una cultura condivisa.
Prologo
Dell’antica imponenza della casa colonica era rimasto ben poco; difficile immaginarsi ciò che era stata, e anche quello che forse sarebbe potuta tornare ad essere. Il grosso del lavoro l’avevano fatto i bombardieri alleati nell’agosto del ’44, del resto se ne erano occupati il tempo e l’incuria riducendola a un cumulo di macerie sulle quali la natura aveva preso la sua rivincita, colmando con una fitta vegetazione i vuoti di parte del tetto e delle mura crollate.
La ruspa lavorava senza sosta, sollevando cumuli di sterpaglie e rami d’albero tagliati dalla squadra dei boscaioli e accatastandoli in uno spiazzo dove bruciava alto il fuoco. Un uomo in giacca e cravatta che indossava l’elmetto protettivo aveva dispiegato una grande carta sul cofano di un pick-up e discuteva con due collaboratori indicando con il dito alcuni particolari del disegno che riproduceva la colonica e i terreni adiacenti una volta terminato il lavoro; gli uomini annuivano.
Il conducente fermò la ruspa abbassando la benna sino a terra, scese e si diresse verso i tre che visionavano il progetto.
– Comincio a spostare anche le macerie davanti al portone?
L’uomo in giacca e cravatta rivolse meccanicamente lo sguardo verso il quadrante dell’orologio e annuì con un cenno della testa.
– Faccio venire il camion così puoi caricarle direttamente sul cassone.
L’altro accese una sigaretta, ma non ebbe il tempo di fumarne la metà che il camion era già in posizione, e con una imprecazione riprese il suo posto.
Il portico e la parete della facciata erano in larga parte crollati, e le macerie costituivano un blocco alto almeno tre metri e largo dieci. Gli ingegneri aspettavano che venisse liberato l’ingresso per capire quali muri dovessero essere abbattuti e quali ricostruiti; poi sarebbero passati a valutare la stabilità dei solai interni.
Il lavoro proseguì fino alle tredici; poi gli operai, richiamati dal caposquadra, si ritirarono per il pranzo e ripresero attorno alle quattordici e trenta. Un paio di ore dopo, quello che rimaneva della facciata della casa era libero ed era finalmente possibile accedere all’interno.
L’uomo della ruspa spense il mezzo, emerse dalla nube di polvere che aveva sollevato e si accese un’altra sigaretta.
– Andiamo a vedere, ma facciamo attenzione – disse l’ingegnere rivolto ai suoi collaboratori.
I tre si avvicinarono con cautela; i muri perimetrali, spessi oltre mezzo metro, erano in larga misura intatti, ad eccezione dell’area circostante il portone di ingresso. All’interno, anche la parete di fronte era in piedi; sulla destra, illuminata dalla luce che inondava la stanza attraverso il tetto sfondato, una porta di legno resisteva ancorata ai cardini. Sul pavimento, i resti delle travi portanti del tetto, tegole e parte del solaio impedivano il passaggio.
– Aiutateci a liberarci di questi calcinacci, e attenti che non salti fuori qualche vipera.
Con l’aiuto di alcuni operai, venne aperto un passaggio all’interno della stanza.
– Sono passate le diciassette, è ora di staccare – provò a obiettare uno.
– Solo un momento: non sei curioso di vedere cosa c’è dall’altra parte?
L’altro accennò un sì con la testa, più per il fatto di non voler contrariare il suo superiore che per convinzione.
– E se è chiusa a chiave?
– Vediamo.
La porta dapprima non si mosse, poi spingendo più forte si aprì verso l’interno; il tetto era quasi completamente crollato e l’ultima luce del pomeriggio illuminava la stanza.
– Mi pare ci sia poco da vedere: se l’interno è tutto così, facciamo prima a buttar giù tutto e ricostruire da zero – commentò quello che aveva fretta di staccare dal lavoro.
– Aspetta – lo interruppe il capo cantiere – cos’è questo?
Indicò qualcosa che sporgeva da un cumulo di detriti, proprio davanti a loro. D’istinto si chinò per vedere meglio, ma si ritrasse immediatamente con un movimento brusco all’indietro. Grigio di polvere, solo a tratti coperto da una manica di tessuto consumato dal tempo, sporgeva da sotto una trave quello che una volta era stato il braccio di un uomo, le ossa della mano aperta verso l’alto, come in una disperata richiesta d’aiuto.