"Passavo il tempo a ripetere nella mia mente sempre la stessa domanda: 'Perché proprio a me?' Ma poi ho capito che a questa domanda non c'era risposta"
Una storia toccante, un resoconto crudo e dettagliato delle vicende che hanno sconvolto la vita di una ragazza universitaria, le cui uniche preoccupazioni riguardavano gli esami, il fidanzato e i disagi da studentessa fuori-sede. Improvvisamente, un'emorragia cerebrale la costringe a lottare tra la vita e la morte, e ad intraprendere un cammino di riabilitazione lungo, doloroso e, a tratti, umiliante ma che le farà riscoprire l'amore tenace e tenero delle persone a lei vicine, la preziosità della vita umana e la gioia delle cose semplici. Un'esperienza che ci interroga sulla realtà della sofferenza ma che, allo stesso tempo, pagina dopo pagina, si rivela un inno alla vita e a ciò che, in essa, conta realmente e rimane anche quando tutto il resto sembra crollare. Certo, alcune domande restano senza risposta, ma ciò che l'autrice ci trasmette, la preziosità della sua testimonianza risiede nella scoperta che la vita è meravigliosa e degna di essere vissuta, sempre, fino in fondo, fino alla fine.
Primo capitoloÈ incredibile come in pochi minuti possa cambiare lo status quo di una persona, e quanto tempo ci voglia per riacquistare quello status, almeno in parte. Anche se so che il concetto di tempo è relativo, per me è così chiaro! Quando si parla di anni, anche di un solo anno, è tanto tempo. Quella mattina era domenica; una bella giornata di marzo, soleggiata. Pensavo a cosa avrei fatto quel giorno, dopo aver portato il mio cane, Amelie, a fare i suoi bisogni fuori. Ero entusiasta all’idea di poter uscire in una giornata calda, dopo parecchio tempo. Ricordo tutto, anche come ero vestita; abbastanza leggera per quella giornata, però ero presa dall’euforia. Anche se sentivo un po’ di freddo all’aria aperta, lo sopportavo volentieri perché era da tanto che non si vedeva una bella giornata. Decisi di andare a correre e pensavo a come avrei fatto a far correre Amelie insieme a me. Ed ecco che mentre pensavo alle possibili soluzioni persi l’equilibrio, non riuscivo a stare in piedi e non ero capace di stare dritta sul divano. Mi sentii come se avessi scolato un’intera cantina di vini. Pensai si trattasse di un episodio grave di cervicale e, siccome non avevo nessun medicinale in casa, decisi di chiamare un’ambulanza, pensai che se mi avessero dato qualcosa di forte mi sarebbe passato. Ho composto il numero di emergenza sanitaria - quello centoequalcosa, che non conoscevo: lo cercai su internet con il cellulare - ma quando mi rispose la ragazza competente non riuscivo a parlare; o meglio, ci riuscivo ma non era chiaro quello che avevo intenzione di comunicarle, cioè che mi stavo sentendo molto male, che avevo un forte mal di testa, il mio indirizzo: non ci riuscivo. Per fortuna la mia coinquilina, Angela, era in casa. Era rimasta inerte, non sapeva cosa fare, ma non c’era nulla che potesse essermi d’aiuto. L’unica cosa che le dissi quando ancora ero in grado di dire qualcosa fu quello che provavo fisicamente, i dolori che mi assalivano. Se lo comunicavo ad un’altra persona - di solito non lo facevo se mi rendevo conto che non era grave - si trattava di una cosa seria. Continuò lei la telefonata che avevo iniziato a fare io. Disse alla ragazza che rispose al telefono - in modo più o meno corrispondente - quello che sentivo; ma, forse presa dal panico, non ricordava il numero civico dell’appartamento. La mia mano e tutto il braccio destro si erano completamente bloccati. Quindi, alzai l’indice della mano sinistra e cercai di comunicarle il numero uno, cioè il numero civico che non ricordava. Mi capì al volo e lo disse alla ragazza al telefono. Dopo una mezz’ora circa arrivarono i soccorsi. Non avevano capito nulla, neanche loro sapevano cosa fare, il medico a bordo non c’era - ma questo lo appresi solo in seguito. Ricordo che ero stesa sul divano, priva di qualsiasi tipo di forza e i soccorritori cercavano di non farmi perdere i sensi dandomi schiaffetti sul viso, cercando di farmi stare seduta - e non sdraiata - sul divano, chiamando ripetutamente il mio nome. Cercai, contro ogni legge della fisica, di non perdere i sensi e di restare sveglia. Amelie mi camminava addosso e abbaiava ai nuovi arrivati. Non volevo che desse fastidio ai soccorritori, perciò feci segno ad Angela - non so come - di chiuderla nella mia stanza. Esausta, mi accorsi che qualcosa non andava: i volontari presenti nell’ambulanza temporeggiavano, quindi chiesi con tutta la mia forza di volontà - l’unica forza che mi era rimasta: «Cosa stiamo aspettando?». Angela aveva tradotto i suoni, per alcuni senza senso, che provenivano dalla mia bocca e mi rispose: «Il medico a bordo». Così, mi rassegnai ad aspettare. Dopo quello che a me sembrò molto tempo, arrivò il medico: avevo già perso alcuni dei miei sensi. Ero come staccata dal mio corpo e i suoni li percepivo molto lontani, come quando si parla al telefono con un parente dell’America. Finalmente, capìta la gravità della mia situazione, mi portarono all’interno dell’ambulanza che mi avrebbe trasportato in ospedale. Mi misurarono l’ossigenazione del sangue: sentii dire che era buona. Mi misero una traversina assorbente sul petto dato che era complicato ingoiare la saliva e molta mi colava addosso. Poi non ricordo più nulla: persi i sensi e mi addormentai.