"Napoli è un paradiso abitato da diavoli" affermava Benedetto Croce. Ma è davvero così? L'autore descrive la cruda realtà di Scampia vista attraverso il cuore di una donna: Melina, e gli occhi limpidi e penetranti di un poliziotto che cela, dietro la maschera dell'autorità costituita, un animo capace di interrogarsi e di comprendere le sofferenze nascoste dentro ciò che noi, spesso frettolosamente, etichettiamo come "Male". Dietro le vicende di "Venditrice di morte" a Napoli, scorrono come un fiume le parole di Melina, che svelano una vita segnata dal dolore e dalla violenza e che fanno da sfondo all'insaziabile sete di denaro e potere che anima il mondo sommerso della criminalità organizzata. Interrogata sull'uccisione di un poliziotto penitenziario a cui era legata da sentimenti di amore e tenerezza, la donna getta via la maschera e svela sé stessa e il volto, umano eppure ripugnante, di un'esistenza segnata dal crimine. Questo non è un libro sulla mafia napoletana, sulle dinamiche legate allo spaccio di droga o all'impero economico su cui essa si fonda; non è un libro sulla camorra, ma sul cuore che batte dentro di essa: nel petto di Melina, nelle strade di Scampia, così come nelle basi di spaccio della 167. Non si può parlare di criminalità senza guardare in faccia chi la compie; conoscere le loro storie, i loro perché, nascosti dietro volti scavati dal dolore e mani incallite dal male. Questo è il merito di Melina: quello di essere stata autentica, anche nella sua miseria.
Primo capitoloA scuola, quando ero bambino, i maestri usavano mandare un alunno alla lavagna per scrivere col gesso; da un lato i nomi dei compagni buoni e, dall’altro, quello dei cattivi, separati in mezzo da una minacciosa e severa linea bianca. Non ricordo se quel potere conferito generasse in quel piccolo me compiacenza o un angoscioso senso di responsabilità, però sono sicuro che ignoravo che il canone di “buono” (e dunque del suo opposto) fossero il concentrato di un processo evolutivo iniziato con l’Homo Sapiens e che poi si era formato, percorrendo le strade della latitudine, della longitudine, della cultura e della conoscenza tracciate sui concetti di famiglia, patria, religione e dalle sorti di tante guerre. In quel semplice graffito passava l’intera storia dell’umanità e nello stridente e, per me, odioso trasferimento della polverina bianca dal gesso alla lavagna l’Ordinamento vigente. Dunque, da lì, in quel Greenwich della coscienza, passava il confine insidioso tra l’etica e la morale, come commenterebbe la mantide religiosa, dopo l’accoppiamento col povero maschio. Dopo tanti anni, per un purissimo caso e senza alcuna attinenza, scelsi per mestiere quello del poliziotto. Avrei potuto farne altri, tanti, purché dessero sfogo alla curiosità che impregna la mia personalità, visto e considerato il tempo che vi si dedica quando suscita sana passione. Oggi come allora, sono ancora attratto da tutto ciò che promette e richiede “scoperta”, ovunque l’universo la celi dall’armoniosa conchiglia all’ “ultima curva del sentiero”: quella che infine coincide con la morte. Ma, soprattutto, e qui entriamo nel campo della mia suprema vocazione, nelle vecchie cantine di pietra di tufo che una volta erano tanto frequenti dalle mie parti, avvinazzate dall’uso e pazienti custodi di attrezzi e utensili di antiche tradizioni abbandonate. E fu sicuramente questo aspetto che indusse mio padre, come si direbbe oggi, a “rinominarmi”: “ ‘o sapunàro ”. In pratica, ho continuato a separare l’umanità ai margini di quella linea spietata. Ora la questione che sto per approfondire è se il nome di “Melina” debba essere inserito nell’elenco dei “buoni”, o in quello dei “cattivi”, o se, invece, quella linea di gesso bianco vada cancellata. Intanto, io penso che vivere sia un mestiere scostumato.