Anno 225 a.C.Nella penisola italica grandi cambiamenti stanno per definire quella supremazia che ormai da quasi duecento anni il neonate popolo romano vuole avanzare sulle popolazioni autoctone. Dopo aver definito attraverso sanguinose battaglie l’egemonia su tutta l’Italia centrale, aver soppiantato i greci ed i cartaginesi al Sud e schiacciato le ultime velleità di governo delle città stato etrusche, Roma punta diritta verso nord, incontrando quel crogiuolo di razze e tribù che abitano da secoli la pianura padana. Popoli che, abituati a gestire in modo indipendente tra di loro territori e relazioni non accettarono e non accetteranno mai completamente, neppure al momento della concessione della cittadinanza di cives, la gestione romana.La pianura padana è costellata di piccoli villaggi e nuclei abitativi tipici delle tribù celtiche che, a seguito della loro diaspora nei secoli precedenti, hanno sparso dalla Spagna alla Germania decine di tribù che col tempo si sono autodeterminate in vere e proprie piccole nazioni. E’ in questo momento storico ed in questa zona che prende vita la nostra storia. Una storia fatta da uomini, donne e accadimenti che difficilmente potranno mai più accadere di nuovo. Anche e soprattutto perché da terra di nessuno quale era, il bacino idrico e agricolo principale della penisola diventa oggetto della contesa di troppe parti, alle quali, come se non bastassero i litigiosi Celti, gli orgogliosi Etruschi ed i rombanti romani, si aggiunge un quarto e scomodo protagonista, Annibale, pronto a sfruttare un’occasione irripetibile per portare a compimento la vendetta promessa a suo padre, sconfitto anni prima dai romani. In mezzo a tutto questo, un ragazzo e la sua famiglia cercano di sopravvivere e vivere creandosi un loro mondo, ancora diverso da quello in cui si trovano, visto che sono esuli dalle zone direttamente confinanti con i germani.In un vorticoso susseguirsi di avvenimenti, questa famiglia, con l’aiuto di altri insospettabili alleati, si integrerà in un tessuto umano e sociale destinato a perdurare per secoli e, chissà, che forse esiste ancora oggi. Buona lettura.
Primo capitoloLa mattina non aveva comunque promesso nulla di buono sin da quando all’alba, che più che altro si avvertiva attraverso la fitta coltre di nebbia, era più una sensazione, la madre aveva scovato tra i due sacchi di orzo rimasto un grosso topo dalla coda rosata che la guardava con aria di sfida come a dirle:
- Grazie per avermi sfamato per tutto l’inverno. -
Ormai Meren doveva cacciare e scovare i topi da sola, da quando il vecchio mastino aveva perso tutte le proprie velleità di cacciatore implacabile a favore della pura compagnia trasformandosi all’occorrenza anche in coperta o cuscino per le due piccole sorelle di Urgar.
La cosa utile ed efficiente delle palafitte era comunque che i topi erano in realtà gli unici abitanti abusivi e sgraditi, mentre si poteva rimanere discretamente tranquilli e al riparo dalle rabbiose scorribande della faine e delle volpi che non riuscivano certo ad arrampicarsi sulle scale fino ad arrivare ai quasi quattro metri di altezza dei pavimenti asciutti della palafitta di Urgar. Non era infatti insolito, per chi non avesse ancora ritenuto necessario sollevarsi da terra per stare all’asciutto, ritrovarsi con una volpe macilenta, schiumante e disperata che provava ad afferrarti un piede o un braccio durante la notte. Va da sé che il poveretto veniva trovato nella migliore delle ipotesi alcuni giorni dopo l’accaduto agonizzante o morto dalle febbri e dalla rabbia. Le zone umide a Sud del Padus erano ormai da migliaia di anni abitate da genti e popoli che avevano dovuto abituarsi a quelle zone mai completamente secche o, peggio ancora, allagate. Per fortuna la natura aveva regalato a quei temerari anche gli strumenti giusti per sopravvivere alle situazioni. Pioppi che non assorbivano l’acqua, ma che anzi gettavano radici appena piantati come pali di sostegno, fortificando la base. Salici e canne di saggina che fornivano del comodo e veloce cordame, all’apparenza esile e poco resistente, ma che, intrecciato ancora verde e pieno di linfa, una volta seccatosi attorno ai tronchi ed alle assi, poteva durare anche più di cinque anni. Poi c’era quel terribile terreno impermeabile fatto di argilla color verde/marrone che, se da un lato era la peggior soluzione per ogni variabile abitativa se non quella rialzata, dall’altro era la miglior soluzione per una perfetta coibentazione di tetti e di pavimenti, per costruire ed impermeabilizzare pannelli di canne utili per costruire dei resistenti contrafforti per i recinti degli animali domestici, ma, soprattutto, era terreno grasso che aveva una buona resa per quei pochi cereali che si riuscivano a far crescere lontano dalle acque stagnanti per gran parte dell’anno. Il territorio era comunque stato parzialmente civilizzato e riunito nella lingua e negli usi più quotidiani grazie alla subdola ma determinata presenza degli Etruschi, chiamati dalle popolazioni autoctone “Tusci”. Il risultato di tale dominazione sotterranea era stato in primis il nascere di villaggi sempre più grandi e popolosi, con strutture di difesa e di controllo più attente a quelle che potevano essere le scorribande dei villaggi vicini quasi sempre nemici e delle sempre più rade, ma numerose ed efferate, bande di briganti disperati, formate da esiliati, reietti e caduti in disgrazia nelle lotte intestine che, inesorabilmente si venivano a creare all’interno dei nuclei abitativi per garantirsi o spartirsi le poche briciole di potere che gli Etruschi lasciavano insieme alla libertà di mantenere alcune delle più importanti feste ed usanze che si tramandavano da tempi immemori. L’ingerenza etrusca di fatto si limitava a rendere le popolazioni indigene dipendenti per quella che riguardava il commercio dei prodotti e dei proventi delle attività di caccia e raccolta e per quello che era la poca informazione su quanto succedeva al di fuori del raggio di azione dei messaggeri che partivano da villaggio a villaggio.
Quello che gli Etruschi non volevano di certo prendere in carico era il grande numero di nemici nascosti che affliggevano senza possibilità di scampo i popoli che da secoli avevano colonizzato quella zona.
In primis la malaria, che dalle paludi salmastre di Ravenna colpiva indiscriminatamente, senza esclusione di sesso, età e tribù, fino alla grande città di Mediolanum.
Gli sciami di zanzare attaccavano per almeno otto mesi all’anno senza possibilità di cure definitive, decimando villaggi e sterminando famiglie.
L’altro grande problema era l’isolamento, conseguenza della esigua popolazione, poco avvezza e propensa ai rapporti di buon vicinato, formato a loro volta da uomini e donne sempre sospettosi e troppo fieri per chiedere aiuto. In tempi ormai lontani, le tribù celtiche dei Galli avevano colonizzato quelle zone praticamente disabitate, visto che avevano dovuto spostarsi dalle loro terre natie oltralpe, trovandosi poi a cozzare contro la strenua difesa del territorio oltre il Padus da parte dei Veneti, diretti discendenti delle tribù germaniche che avevano attraversato le Alpi in tempi lontanissimi. Ormai di quelle tribù era rimasto ben poco e anche i caratteri somatici erano ormai mischiati in una accozzaglia di etnie, rivelando le presenze di matrimoni e convivenze ormai fuori da ogni tipo di controllo etnico.
Come i corpi, anche le tradizioni erano cambiate, anzi, in alcuni casi persino perse. Tutte quelle che non avevano ancora un senso pratico che aiutasse i corpi e gli spiriti a sopravvivere alle difficoltà quotidiane era stato abbandonato e veniva recuperato solo in occasioni speciali. La zona centro meridionale della pianura alluvionale era comunque una fetta di terra che era sempre stata nei piani di conquista di tutte le popolazioni che avevano provato a stabilirvisi, un po’ per la propria affascinante varietà territoriale ( si passava in una manciata di giornate a cavallo dall’acqua del Padus alla neve delle montagne che segnavano i confini dell’Etruria), sia per la feroce capacità di autodifendersi (per un invasore era praticamente impossibile avvicinarsi in forze senza farsi notare) delle tribù che vi abitavano. Si poteva però dire con discreta certezza che, volendo racchiudere tutte queste tribù, villaggi, nuclei ed individui, li si sarebbero potuti definire genericamente Galli Boi.
Fu in questa situazione socio-culturale ed in questa zona di passaggio e crocevia tra Etruria, Gallia Cispadana e Cisalpina, e più precisamente in una striscia sottile di terra spremuta tra due fiumi che sembrano a tutt’oggi come allora non volersi mai unire, che una giovane coppia di Illiri decise di stabilirsi. A nulla erano valsi i consigli e le storie raccontate loro dagli indigeni e le esortazioni dei loro compagni di viaggio a proseguire con loro verso terre migliori e più ospitali. Non li avevano spaventati neppure i racconti di alluvioni con acque anche fino a quatto o cinque braccia di altezza che facevano marcire qualsiasi cosa per mesi. Oppure delle visite dei lupi che scendevano dalle montagne per predare le poche e macilente bestie che si riuscivano ad allevare. O anche delle stagioni che non davano mai dei segnali chiari e forti sul loro cambio o sul loro definitivo manifestarsi, con gelate che arrivavano dopo lunghi periodi miti, bruciando i germogli che i contadini avevano seminato ritenendo l’inverno ormai passato.
Dopo aver preso parte alla migrazione dalla loro natia Dalmazia più per necessità e disperazione che per convinzione, i novelli sposi Nemar e Meren erano rimasti come presi prigionieri alla vista di quel luogo con i due fiumi così vicini, ma anche così distanti nel loro essere diversi. Uno, quello ad Oriente, con l’impeto veloce del torrente anche se del torrente aveva perso ogni caratteristica.
L’altro, quello ad Occidente, con quel fluire sornione che ti lasciava la sensazione di poterti fidare, ma, quando meno te lo aspettavi, ti sommergeva con onde di tronchi e fango. I due giovani avevano visto una particolare zona con degli altissimi salici che da anni avevano tenuto stretto nella morsa delle loro radici il terreno argilloso.
Dove le radici non avevano ancora fatto presa l’acqua aveva naturalmente scavato dei fossi che permettevano all’acqua stessa di scivolare verso zone più basse, lasciando più asciutta quella radura. Inoltre certo in quel bosco non mancava il materiale da costruzione. A conferma che quel luogo non fosse così inospitale come il resto della zona c’erano altri due fondamentali indizi. Il primo era la presenza di diversi resti di capanni di fortuna e la vicinanza di molte più famiglie rispetto ad altri luoghi già attraversati. Il secondo era l’aver notato diverse tane e buche di animali, segno che probabilmente lì l’acqua non era così stagnante o devastante come in altre zone.
Nemar si era ben guardato dal pubblicizzare soprattutto quest’ultimo indizio, visto che non era nei suoi programmi creare una tribù o avere altre persone nella propria capanna.
Non erano ancora scomparsi all’orizzonte i loro vecchi compagni di viaggio che Nemar aveva già preso in mano l’ascia e si stava già dirigendo verso il salice più vicino al limitare della radura. Grazie alla sua forte tempra e alla sua perizia nell’utilizzare gli strumenti per i lavori pesanti, Nemar in nemmeno due settimane riuscì a costruire una solida e ben protetta capanna su una palafitta. La struttura poggiava su otto pilastri costituiti da tre tronchi ognuno, legati tra di loro non solo con le corde di salice, ma da robuste assi ad incastro. La solidità della struttura era tale che riusciva a sorreggere una capanna a tre stanze, capace di accogliere in quella principale fino a otto persone. Era molto più spaziosa di tante capanne a terra. Completava il lavoro un bel pavimento di argilla con addirittura un angolo dove alcune lastre di ardesia potevano accogliere pure un discreto focolare. Il tetto a due acque aveva già dato prova della propria tenuta con i due temporali che li avevano messi alla prova colpendoli con chicchi di grandine grossi come nocciole e pesanti scrosci d’acqua. Nemar aveva anche studiato un sistema di convogliature e raccolta dell’acqua piovana che garantiva loro di averne sempre a disposizione senza dover andare fino al fiume.
Una volta sistemata la priorità della casa, per Nemar e Meren la cosa principale era stata la sicurezza del loro valore più importante. Il loro stallone e le loro tre giumente. Una delle quali era gravida e ormai prossima al parto. Nemar sapeva fare molte cose, dal fabbro al conciatore, ma se c’era una cosa che faceva sempre volentieri e che lo rendeva anche orgoglioso per i risultati, era sicuramente prendersi cura dei suoi cavalli oltre a cavalcarli.
La sua famiglia era sempre stata dedita all’allevamento dei cavalli, tanto da aver avuto un permesso speciale per poterne possedere più di un tiro a quattro a testa. In realtà non era normale persino in quella zona avere un recinto con quattro cavalli, sia perché erano un’incredibile ricchezza, sia perché non sarebbero stati semplici da mantenere. Il solo trovare il foraggio avrebbe comportato parecchie difficoltà. Le uniche erbe che crescevano spontanee erano quelle palustri, il più delle quali erano munite di foglie taglienti e dure, come quelle delle canne di saggina, mentre le restanti altre avevano la consistenza delle alghe del mare, ma probabilmente troppo ricche di clorofilla per gli stomaci dei ruminanti. L’unica pianta che era di buon utilizzo sia per gli animali che per gli uomini era una specie di crescione, che formava dei cuscini verdi lungo le rive dei fiumi e nelle pozze che non seccavano durante la stagione estiva, ma certo non in quantità adatte a sfamare dei quadrupedi abituati a ben altro.
La questione fu risolta in modo casuale e forse inaspettato.
Una mattina Meren andò a prendere una manciata di piante acquatiche per farle essiccare per poi utilizzarle per coibentare meglio il tetto. Chiamata dal marito per aiutarlo a sollevare in posizione verticale un lungo palo per puntellare la vasca di raccolta dell’acqua, lascò la fascina appena al di fuori del recinto dello stallone. Tornata dopo poco per stendere l’erba bagnata sopra l’essiccatoio, scoprì che il cavallo aveva quasi completamente mangiato l’erba. Meren iniziò a chiamare Nemar disperata e terrorizzata che il cavallo si potesse avvelenare e morire. Con loro grande sorpresa il cavallo invece non ebbe nessun problema e da allora, quando non riuscivano a trovare erba fresca, quella palustre diventava la loro ancora di salvezza, sia fresca che essiccata come fieno.
Ma la cosa che rese più famoso Nemar davanti agli occhi dei loro vicini e, col tempo, a tutti quelli che per necessità o scambi passavano in quella zona, fu la capacità di catturare ed allevare animali selvatici. Come aveva visto fare nelle sue terre, Nemar iniziò a preparare trappole e recinti per gli animali che aveva notato popolare i boschi nei dintorni. In pochi mesi aveva già collezionato una mezza dozzina di cinghiali e qualche daino. Per quelli che faticavano ad adattarsi alla vita nel recinto non rimaneva che la pentola, lo spiedo o la graticola dell’affumicatore, ma, incredibilmente, dopo un anno i cinghiali si erano già riprodotti un paio di volte ed era nato persino un daino, primo di quella che sarebbe divenuta una lunga serie.
Questo rese Nemar quasi uno stregone agli occhi dei Galli Boi e dei Celti, che, fino ad allora, avevano visto gli animali della foresta come semplice fonte di cibo immediata. Che lo fosse o meno, a lui non importava, visto che il risultato ora era una casa, una moglie e, dopo nemmeno un anno da quando si erano stabiliti, un figlio che stava per nascere. La moglie, infatti, avrebbe dato alla luce all’inizio dell’estate il suo primo figlio. Meren, da brava moglie barbara, non dava importanza a nulla che non fosse indispensabile alla sopravvivenza. Una cosa però la rendeva felice sopra ogni cosa. Il figlio o la figlia che sarebbero nati avrebbero dato al marito un nuovo spirito di rivalsa nei confronti della vita. Suo padre glielo aveva detto prima di salutarlo per l’ultima volta sette anni prima in Dalmazia. Un giorno avrebbe dato alla sua progenie quello che a lui era stato tolto. Forse non un regno, ma sicuramente qualcosa di importante per cui essere ricordato.
Se non fosse stato per le sporadiche visite di qualche brigante che aveva cercato di rubare loro qualche cinghiale e qualche daino più per fame e disperazione che per vero intento di predare ad altri, la vita della famiglia trascorreva quasi idilliaca, senza mai patire i morsi della fame e con rari momenti di difficoltà.
La gravidanza andò secondo natura e a giugno era nato un bambino, sano e biondissimo, come la madre. Il padre gli mise nome Urgar, un nome il cui suono assomigliava al grido di un soldato in battaglia o al rugliare di un orso, l’unico animale che Nemar temesse tra tutti quelli che aveva incontrato (e ucciso). Il bambino cresceva bene e si era dimostrato un valido ascoltatore, un ottimo apprendista e un figlio devoto, tanto che il padre lo iniziò all’arte della caccia e dell’agguato talmente presto che il bimbo non riusciva quasi a trasportare il piccolo sacco puzzolente con le esche da lasciare nelle trappole. A sette anni il padre iniziò a portarselo con sé anche nelle battute di caccia che duravano più giorni. Fu in quelle occasioni che, lontano dal focolare domestico, Urgar poteva conoscere e apprezzare il padre guerriero, che lo aizzava contro i Tusci, i “boriosi bevitori del sangue della terra”.
Dopo tanti anni ancora non era riuscito a dimenticare e soprattutto a perdonare quello che gli abitanti di Felsina avevano fatto all’orda di disperati che erano giunti sotto le loro mura. Non vedeva l’ora di vendicarsi dell’onta subita, erano stati raggirati, illusi e presi in giro. Sfruttando la cattiva condizione in cui erano giunti come esuli in terra straniera, dopo due lunghi anni in cui la sua tribù aveva sofferto la fame, la sete, il caldo, il freddo e, soprattutto, lo scherno e l’aggressività dei Veneti e dei Boi, quando i barbari erano arrivati presso Felsina, il reggente della città era stato solo capace di indicare loro la palude, dicendo che sarebbe “stato meglio per tutti” se loro non fossero entrati all’interno della città. Per Nemar e gli altri guerrieri sembrò l’avverarsi di un incubo. Avevano fatto tutta quella strada, perso uomini, donne e bambini per farsi sbattere in mezzo ad un acquitrino puzzolente dove non sarebbero sopravvissuti che pochi anni.
La versione ufficiale per il loro allontanamento dalla città fu che la zona era reduce da due anni di grave carestia dei già miseri raccolti, fatto che aveva portato già molte famiglie, o quello che ne rimaneva, a cercare rifugio e riparo all’interno della città, mettendola in ginocchio sia a livello economico che a livello sociale e sanitario. La verità la vennero sapere troppo tardi: i Tusci non avevano abbastanza armati per sconfiggere i Barbari, perché i loro uomini migliori erano stati mandati in Etruria per affrontare la nuova minaccia: I Latini o come preferivano farsi chiamare, i Romani.