Gli anni che attraversano e seguono la seconda guerra mondiale sono sceneggiati dall’autore attraverso le azioni, i pensieri, le incertezze e i turbamenti dei protagonisti: Silvio, Egidio, Ida, Cloe, Oscar, penetrando nei recessi più segreti di vittime e colpevoli, protagonisti di una vita fatta di azioni o di omissioni che svelano all’improvviso dove si annida il “male quotidiano” con il quale ognuno combatte in cerca della redenzione oppure del verdetto finale della morte. Nel chiuso delle case o nelle vie e nelle piazze di Cimaturrita, con le ambiguità e le contraddizioni della storia d’Italia dal fascismo al dopoguerra, si consumano i misfatti pubblici e privati dei protagonisti di questa vicenda, stanchi di una vita di delusioni e di angosce, con alle spalle un passato incompiuto, inespresso, lancinante, ciascuno nel tentativo di spezzare l’assedio di una solitudine che non concede più spazio ad amori illusori e neppure a passioni che possano restituire un senso alla vita travolta da un male senza nome, sfuggente, insidioso. Grazie a una scrittura scabra e di tenace intensità espressiva, Canali riesce a mettere a nudo il cuore dei suoi personaggi e di un’intera generazione passata attraverso la violenza della guerra e, in questo suo ultimo romanzo, porta alle estreme conseguenze quella che Alessandro Piperno ha definito “l’immaginazione macabra smussata dalla pietà e dalla tenerezza”. In un esercizio della parola dentro l’azione narrativa che è, come aveva ben visto fin dagli inizi Eugenio Montale, una coraggiosa operazione di verità, una battaglia contro la dignità umana offesa.
Primo capitolo
Il giorno di Natale, Cimaturrita era deserta sotto la neve che scendeva su uno spesso strato di ghiaccio. Alle tre del pomeriggio era già quasi notte. Da qualche rara finestra trapelava una luce rossastra. Silenzio ovunque, nel paese arrampicato sull’erta del monte e nell’altopiano sottostante gremito di squallide palazzine estive deserte. Solo da una porta di osteria socchiusa provenivano voci roche e bussi di carte sbattute sul tavolo in una partita che sembrava una rissa. Poi una voce si alzò violenta sulle altre, un’altra farfugliò vinosa e lamentosa, una terza, l’unica intellegibile, aveva il tono di mettere pace. La porta dell’osteria si spalancò sbattendo contro il muro esterno, e un vecchio corpulento fu proiettato fuori, scivolò, cadde in ginocchio sulla neve. Subito dietro di lui uscì un anziano alto, segaligno, solo leggermente curvo, lo aggirò, gli si piantò davanti: “Non ti ammazzo perché sei sempre stato un vigliacco”, gli urlò in faccia. Poi lo prese sotto le ascelle, lo rimise in piedi barcollante, lo spinse avanti, mentre la porta dell’osteria si richiudeva di schianto alle loro spalle. Il vecchio camminava inciampando, scivolando, abbrancandosi ai muri, urlando che lo lasciasse stare, e una volta almeno nella sua vita
si mostrasse umano, avesse pietà di uno più vecchio di lui, d’un antico compagno di lotta. Il segaligno sghignazzò: “Quale lotta, tu ruffiano di tua figlia, tu mezzo rosso e mezzo nero”, continuando a spingerlo verso la meta che s’era prefissa. Il vecchio capì: “No, da lei no”, gridò. Ma una spallata lo costrinse in un vicolo già quasi buio che sboccava in uno slargo illuminato a giorno da quattro lampioni ad alto voltaggio – segno di privilegio paesano – davanti ad un palazzotto annerito dal tempo, quasi solenne nella sua vetustà.
Qui il vecchio tentò l’ultima resistenza, ma l’altro lo investì con una raffica di ingiurie, a lui, alla figlia e al marito di lei: “È quella troia insieme al suo uomo becco, che devono ospitarti, e non lasciarti in giro a morire di fame e di freddo.” Abbandonando ora il vecchio affranto di nuovo in ginocchio sulla neve, prese a tempestare di pugni il portone serrato del palazzo. Nessuna risposta. Sfilò allora dalla cinghia dei calzoni un’accetta – doveva aver programmato tutta la scena – e con quella prese a colpire furiosamente la serratura.
Solo allora si spalancò una finestra e al davanzale apparve un uomo con un fucile da caccia spianato, gridando ai due di allontanarsi. Ma l’accetta continuò a colpire. La serratura stava cedendo. L’uomo sparò, ma non a colpire. Il vecchio ebbe un sussulto, e giacque, finalmente quieto, ucciso non da quelle fucilate, ma dal gelo, dall’alcol, dall’emozione. Il segaligno ne intuì la morte, si chinò su di lui, e mentre la finestra si richiudeva con fragore di vetri infranti e grida e pianti di donna all’interno, lo sollevò ora con riguardo, se lo caricò sulle spalle, corse a bussare alla porta del parroco, entrò, depose e compose la salma su una panca all’ingresso della canonica e fuggì via a perdifiato verso l’altopiano. Raggiunse i due fabbricati dell’allevamento di polli e maiali, proprietà dell’uomo che aveva sparato. Anche qui a colpi di accetta infranse i chiavistelli prima
dell’uno, poi dell’altro, ma prima di poter provare l’esaltata gioia della vendetta a lungo meditata, fu quasi soffocato dall’aria caldissima e maleodorante che stagnava all’interno e che usciva a folate attirata da quella gelida all’esterno. Migliaia di polli si precipitarono fuori starnazzando impazziti, accecandolo. E un enorme branco di maiali si avventò in una folle carica verso un’impossibile libertà, e travolse e calpestò il liberatore, trascinandolo verso uno strapiombo dov’egli, privo di sensi, insieme a molti di quegli animali precipitò.
In paese, dopo gli spari, le grida, e il lontano fragore di quella folle impresa dettata da antichi rancori e insieme da pietà per quegli animali barbaramente stipati fra loro, anche le poche finestre illuminate si oscurarono. La gente sapeva che cosa era accaduto, lo immaginava da sempre, i più giovani informati dai vecchi: era la resa dei conti, a distanza di decenni, per antiche irriducibili rivalità, odio e disprezzo. I personaggi della tragedia li conoscevano tutti: Silvio, studente, vanto del paese, poi temuto capo d’una banda partigiana che operava fra le montagne alle spalle di Cimaturrita; Egidio, uomo fatto, an che lui partigiano, ma incline alla diplomazia e al compromesso con i fascisti che presidiavano la zona; sua figlia Ida, poco più che adolescente, innamorata di Silvio, da cui aveva perfino avuto una figlia; Oscar, amico di Silvio e suo luogotenente, poi
rivale, e anzi nemico, per il suo innamoramento e poi il sofferto matrimonio con Ida. Tra Silvio sempre in movimento e impegnato in conflitti a fuoco con fascisti e nazisti, ed Egidio, al suo posto nella fabbrica di legname da costruzione – unica piccola industria del paese –, che solo a volte saliva anche lui tra torre e burroni per raggiungere il gruppo di giovani renitenti alla leva e di compaesani in odore di antifascismo ai suoi ordini, i contadini e i pastori del paese avevano senza esitazione scelto Egidio. Lo consideravano uno dei loro, ma senza stimarlo, come in fondo non stimavano nessuno, neanche se stessi, e revocata la propria ammirazione per Silvio, pur continuando ad invidiarne il coraggio, durante un memorabile faccia a faccia fra i due – questa era ormai leggenda a tutti nota – Egidio aveva detto a Silvio: “Dobbiamo difendere la gente dai fascisti, non provocare la loro violenza con azioni criminali e attentati, come vorresti tu”, pur sapendo che quelle parole piene di buonsenso erano una mezza verità, se non un’intera menzogna. In realtà temeva soltanto per sé e per sua figlia Ida, affidata unicamente a lui dopo la morte della madre, mentre dei suoi seguaci poco si curava. Sapeva bene che lo preferivano a Silvio solo perché li aiutava a sottrarre bestiame e quel poco d’olio e di vino che quella secca terra di montagna produceva, alle razzie dei militi neri e delle ronde SS.