I
Aurora
Sono nato il 12 luglio, nell’anno 1884.
La mia alba è avvenuta su un letto carico di vettovaglie,
quadri, monete, monili d’oro e argento, libri. Tutto ciò che
mi sarebbe servito nella vita, non altro.
Il corredo di nascita ha segnato indiscutibilmente il mio
futuro, il divenire.
Sul letto di mia madre Eugenia, partoriente, furono ammassate
le ricchezze della famiglia, in fretta, mentre gli ufficiali
giudiziari erano alla porta bussando energicamente per
farsi aprire, in una lotta contro lo scandire delle lancette.
La battaglia avverso lo scorrere inesorabile del tempo ha
segnato il mio primo vagito.
Sono un ebreo sefardita.
Discendiamo dal filosofo olandese Baruch Spinoza, in un
lontano lignaggio non bene identificato. Ma il sangue che
mi scorre nelle vene lo assimila pienamente: mio nonno mi
chiama il filosofo.
Da parte di mia madre sono un Garsin, gente istruita,
esponente dell’illuminismo ebraico, sefardita, che parlava
ladino.
A Livorno, in via Roma numero 38, ho aperto gli occhi
alla vita tra le gambe forti di mia madre, col ricco corredo di
un passato a me sconosciuto.
Forse mi sbaglio. A ben dire non ho coscienza di ciò che
è avvenuto prima del mio essere, eppure ne porto l’eredità
nell’intima essenza. Tutto ciò che sono è già stato scritto da
tempo, ho avuto solamente il compito di palesarlo al mondo.
Da quel 12 luglio la vita è stata una frenetica corsa per
vincere il tempo che fugge impietoso. Gioie e dolori, cadute
e riprese. Soprattutto immenso piacere nella scoperta di me
stesso, nel riuscire a comprendere ciò che mi brulica dentro,
fremente.
Ogni uomo nasce per un fine ben preciso. Se non fosse
così la vita non avrebbe senso. La storia che portiamo interiormente
è solo una linea dalla quale partiamo; la corsa
dell’essere è verso la conoscenza, incontro a terre inesplorate,
a lidi incontaminati, orizzonti mai scrutati.
Sarei diventato ingegnere, insegnante, o mercante se l’esistenza
mi avesse dato tempo. La vita mi ha dato tutto, tranne
il tempo. Così sono diventato un artista.
Cosciente di un fremito insopportabile che mi ha sempre
portato a bruciare ogni tappa, a cercare scorciatoie per
arrivare prima, ho divorato libri su libri e mi sono lasciato
trascinare, dal mio io curioso e caparbio, nell’incanto ondeggiante
dei musei, delle chiese, del lavoro degli uomini
stratificato nel flusso perenne dell’arte. Il turbine della conoscenza
non mi ha più lasciato ed è sfociato nella creazione,
intima e nascosta, della fatalità, dell’indicibile.
L’orgasmo interiore dell’anima che chiarifica se stessa, che
si svela nell’inconfessato, è potente e vale, da solo, una vita.
Volevo ancora di più.
Ogni essere umano custodisce la magia dell’esistenza,
insita in ogni esile brandello del proprio corpo, in tutte le
minuscole tessere dell’anima. Pochi uomini prendono coscienza
della forza di tale energia, la potenza che un impercettibile
punto può sprigionare.
Io, sin dal primo respiro e gemito, mi sono imposto di
mettere a frutto ogni piccolo seme che mi è stato donato
dalla forza suprema, che ha voluto che esistessi con un corpo
pulsante e dolente, con un’anima che piange e ride, soffre e
gioisce.
E così ho vissuto, pienamente. Nessun rimpianto, nessuna
recriminazione. La disperazione di alcuni momenti è
stata ripagata interamente e, se lacrime pungenti scendono
da miei occhi, sono solo lacrime di felicità piena.
Divago. Parlo come se ancora fossi tra di voi, con un
aspetto ben visibile e materiale.
Non è così, non ci sono più.
Sono morto… Sono morto in un giorno freddo di gennaio…
Sono morto?
Le opere primeggiano imperanti.
Intere sale di musei sono dedicate alle mie creazioni. La
gente preme per vederle, si accalca. Ognuno scruta le sagome
dipinte cogliendovi un’espressione, un significato nascosto.
Rido. È proprio quello che volevo. I ritratti aspirano a
palesare ciò che non si vede, l’anima delle persone.
Oggi potremmo definirli ritratti psicologici. Al mio tempo
era solo una ricerca introspettiva, tentata da altri artisti
destinati in prima battuta all’isolamento, non compresi dagli
uomini dell’epoca.
Ho segnato la mia strada, facendo prevalere il flusso comunicativo
instaurato con i modelli.
Avrei fatto tutto, tranne che ripercorrere pedissequamente
le orme dei miei predecessori. Sono venuto al mondo per
tracciare nuovi cammini e vi chiedo, per chi volesse seguirne
il percorso, di andare ancora avanti, di non fermarvi assolutamente
a quanto è stato già battuto.
Sono diventato famosissimo e ricchissimo, ma non in
vita.
Posso godere di tutti i piaceri del successo, eppure da vivo
non mi è stato precluso di patire la fame, la povertà.
Sono stato amato e ho amato tanto. Solamente questo è
bastato a farmi uomo.
Allora, se ancora parlate di me in modo smisurato e pensate
e riflettete su ciò che ha animato il mio agire, se tuttora
le mie opere sono destinate a imporsi alla visione di uomini
e donne del vostro presente, e di tutti i tempi futuri, non
sono ancora morto.
Non morirò mai.
Rido, di un sorriso di gioia piena.
Il mio corpo, ben presto, è stato marcato dal rovinio e
dagli avvenimenti terreni, celando interiormente una sveglia
ticchettante che faceva diminuire, istante dopo istante,
la durata dell’agire. In ugual misura cresceva l’anelito verso
l’eternità.
Non avrei mai accettato la fine se non avessi avuto certezza
dell’infinito. E ho raggiunto l’intento.
Mi si chiede di parlare.
Sapete bene che nella mia esistenza non ho mai amato
parlare di me, l’ho solo fatto con persone che mi avessero
capito.
Pochissime.
Non ho mostrato veramente le sofferenze causatemi dalla
materialità del corpo. Ho cercato di bloccarle per far emergere
invece la bellezza dell’anima, cosciente che quelle traversie
erano solo degli ostacoli da superare per raggiungere
la pienezza dell’essere.
La maschera spavalda e fiera, indossata ogni giorno, mi
ha aiutato ad andare avanti e non so bene se sia stata realmente
una maschera, perché era l’unica che avrei potuto
vestire.
Perché dovrei parlare adesso?
Perché su di me è stato detto tanto? Perché a volte si è
palesata un’immagine distorta e differente da quella reale?
E cosa è effettivamente vero? Non esiste un confine netto
tra realtà e finzione e non so bene neanche io se riuscirei a
mostravi la verità. È più un discorso di prospettiva, e il mio
punto di vista non sarebbe sicuramente quello di chi ha raccontato
di me, a torto o a ragione.
Lasciate che parlino… l’importante è che si parli.
D’altro canto in vita non ho fatto che questo, far parlare
di me. L’immagine dell’artista, bello, estroso, sempre un passo
avanti rispetto agli altri, è prevalsa rispetto alla sofferenza
che mi attanagliava.
Ci sono stato e ci sono ancora.
Ci sono negli occhi e nei visi dei miei modelli, anche loro
destinati a permanere per l’eternità. Ci sono dentro i vostri
occhi, sbarrati e attenti, nei quali si specchiano i flussi di
colore stirati dal pennello a imprimere sulla tela un tremito
appagato.
E pure sulla superficie grezza della pietra, sferzata dallo
scalpello, accarezzata dalle mani tremanti nell’intento di
darle fiato. Su quelle teste scolpite troverete infinite volte il
mio sudore, la saliva, il sangue.
Vi parlerò ancora, instancabilmente, con il linguaggio
dell’arte.
E mi ascolterete…
Perché io sono Amedeo Modigliani, il filosofo.