Dal ’69, uno stillicidio di bombe e di morti: Piazza Fontana, la questura di Milano, Piazza della Loggia, l’Italicus, Bologna, il rapido 904, Firenze, Roma, le tappe più clamorose e infami del terrore delle bombe. Sono trascorsi 29 anni dalla strage di piazza Fontana quando una donna riceve, il 12 dicembre 1998, 29° anniversario della madre di tutte le bombe, un misterioso e minaccioso diario, definito dall’autore stesso “ordigno”, che rivela alcuni aspetti sconosciuti di quelle vicende. La donna, durante la lettura, inserisce nel manoscritto alcune sue note di commento, destinate ad un misterioso personaggio, non estraneo a quei fatti, che si trova incarcerato in base ad accuse gravissime.
Non si tratta di un romanzo “storico” in senso stretto, ma attraverso il racconto, che è l’entrare nella vita e il guardare le cose con la curiosità di capire, la Storia si intreccia con una quotidianità fatta anche di piccoli eventi, di nevrosi individuali e collettive, di sogni e di fughe, di follia di chi mescola alla realtà i propri mondi allucinati, rivelandosi al lettore nel suo sviluppo altrimenti incomprensibile. E la formula del diario come felice scelta narrativa consente all’autore di condurre i suoi personaggi lungo il corso della loro vicenda, lasciandoli andare per la loro strada e insieme illuminandoli dal più profondo delle loro coscienze attraverso una minuta indagine psicologica giocata sempre di sponda. Gettando così un fascio di luce nel buio degli anni di piombo della recente storia italiana.
Primo capitolo
Estate 1964
Sulla sdraio, occhi al cielo rovente. Squilla il telefono, è per te grida mia madre, rientro, mi appoggio alla mensola a muro. Una voce d’uomo, un pugno allo stomaco, un appuntamento, mezz’ora, oltre non aspetterà. Temevo e aspettavo questo momento, lo temo, ma vado. Mi metto elegante, la mia unica giacca estiva sopra una maglietta gialla, esco rapido sotto l’occhio critico di mia madre. Cammino veloce sull’asfalto infuocato, nessuno in giro, tutti sbarrati in casa al riparo, sulla statale arriva subito un autobus quasi vuoto, si viaggia a finestrini aperti e io tremo di sudore gelido, le strade della città sono svuotate dal solleone, scendo al capolinea, la Giulietta blu è là ad aspettarmi.
Non si muove dal posto di guida, mi fa cenno di salire al suo fianco, avvia e si va. Il rombo tranquillo del motore copre il silenzio minaccioso. Avverto che mi sbircia di quando in quando. «Lei è troppo giovane» sbotta improvvisamente, nel suo livornese duro «perché si vuole rovinare con una che ha almeno dieci anni di più e tiene famiglia? Che cosa va cercando? Una tetta da mungere gratis? A casa di un altro? Lasci perdere, chi glielo fa fare?» Non replico, ma ha esagerato con la differenza d’età, per quanto ne so io. Nel frattempo ho capito dove mi sta portando, e d’altronde già ci siamo, eccola la loro casa, quante volte ho sostato qua fuori nella nebbia gelata delle sere invernali come attratto da un incantesimoMi precede, entro, ed è la prima volta, dal cancelletto verniciato di verde. Il cane, il cucciolone che mesi prima l’aveva trainata festoso attraverso il prato di fronte alla mia finestra (era stata quella la sua dichiarazione), mi ringhia contro come se sapesse tutto, ma è a catena. L’uomo apre la porta di casa e siamo all’interno. Il bambino, è ovvio, non si vede. Mi precede in cucina, dove vedo lei che facendo mostra di sistemare qualche stoviglia ci volta le spalle. «Eccolo qua!» dice. Angela si gira a guardare appena, poi abbassa gli occhi. Di qua della tavola di legno chiaro siamo noi uomini, in piedi, io sottile, tremante dentro ma calmo fuori nella mia giacca estiva a righe, lui massicciamente vestito di blu; dall’altro lato lei, in una vestaglietta smunta. Ora crolla a sedere, appoggia i gomiti sulla tavola e nasconde il viso tra le mani. Breve silenzio, lo utilizzo per vagare un
poco con gli occhi in quello spazio che innumerevoli volte mi sono sforzato di immaginare: non mi piace lo squallore che vedo, come mi aspettavo il buon gusto latita, ma non c’è tempo, lui ha deciso di dare inizio allo spettacolo, parla e non attacca me, attacca lei, e per me esprime anzi una sorprendente comprensione: in definitiva, a un giovanotto adulto, sebbene troppo influenzabile e poco maturo come pare essere il mio caso, e anzi a maggior ragione per questo, va riconosciuto lo stato di necessità; ma lei, che dire di lei?
A me assegna una parte marginale, mi fa grazioso dono di una patente d’ingenuità giovanile impigliatasi nella rete dell’inganno e della corruzione. La rete tesa da lei, la colpevole, l’infedele! Non era la prima volta che tradiva, lo sapevo io? No, vero? Così è lei: puttana! «Come altro la definirebbe» e si rivolge a me, «in tutta onestà, una donna che non si fa scrupolo, mentre il marito sgobba da mattina a sera, di mettere a repentaglio l’avvenire del piccino, non esita a trascurarlo, senza parlare della casa e del marito stesso, e dei loro
rapporti intimi, si capisce, non è mica una macchina, se ogni santo giorno, come ha confessato, la spudorata se la fa con l’amante, come può, di ritorno a casa, essere disposta a compiacere il legittimo desiderio del coniuge? Una donna che mente in continuazione e senza un briciolo di vergogna!»
Snocciola con calma, non c’è verso che dimentichi una battuta, ma s’intuisce che piano piano si sta avvicinando a quanto più gli preme: d’improvviso il suo tono si fa accorato e, rivolto a tutti e due, chiede se deve pensare che la gravidanza, insomma, se l’aborto della primavera scorsa, non sia stato... Angela non dà segno d’aver sentito, la domanda rimane lì, attende a mezz’aria, io guardo lei che non si decide ad alzare gli occhi, chissà quante decine di volte ha già dovuto rispondere, ma come avrà risposto? Dunque devo tirare a indovinare. Allora decido di dare all’uomo quello che si aspetta da me, neanche per un istante mi passa per la testa l’importanza della verità. «Non lo pensi» dico «è impossibile, veramente.» Pare sollevato, ma d’un tratto, proprio allora, perdo contatto con la realtà della stanza e devo sostenermi al tavolo: è, per Angela, che se ne avvede, come un segnale che dà il via a un pianto irrefrenabile, sovrastato da nuove parole di lui che sono tornato a udire ma non a capire, perché guardo le mani di lei traboccare di lacrime che le scorrono sulle braccia sottili giù fino ai gomiti. Ma io non penso che quel pianto voglia rivendicare la verità, espiare la mia menzogna e forse anche la sua, al contrario, non mi sento più solidale con lei, non le rivolgo una sola parola, attendo, ormai infastidito e muto, come un estraneo coinvolto per caso in una disputa tra coniugi, che le parole, per me inutili, finiscano. Esco che lei ancora non riesce a frenare il pianto e me ne vado via, via da lei, per sempre. Io intendo che sia per sempre, e mi sento leggero, forse, dentro, sorrido.