Modena. Una ragazzina, figlia del direttore di una televisione locale, realizza una grossa vincita al video-poker e scompare. Si teme un rapimento, tesi rafforzata dall’interesse manifestato nei sui confronti dalla criminalità organizzata. Avrebbe inventato un’app per il telefonino in grado di far saltare il banco di una delle attività lecite-illecite più redditizie, la gestione del gioco d’azzardo. Il padre, terrorizzato, chiede ad un collega giornalista sportivo, Franco Astolfi, di occuparsi del caso. E’ un amico, anzi qualcosa di più. Ha un passato violento e segreto, ma accetta di indagare. Franco mette insieme uno strano gruppo di collaboratori, una ragazza uscita da una brutta storia di violenza, un operatore tv amante della birra e del rock pesante, un caporedattore collerico e geniale. Sa di avere poco tempo, è un caso che o si risolve in fretta o si risolve in tragedia. In più ha un interesse tutto personale che lo spinge ad impegnarsi al massimo. La collaborazione con la polizia non è semplice e l’indagine si complica quando entra in campo un assassino di donne, brutale e spietato. In più Astolfi se la deve sempre vedere col suo passato, che ritorna in ogni sua azione e che mette a rischio il ritrovato rapporto con la sua donna. In questa storia nessuno è del tutto buono, ma qualcuno è davvero molto cattivo. Le vicende si intrecciano, il quadro diventa sempre più complesso e poi, quando tutto sembra ricomporsi, Franco si accorge che rimane ancora da giocare quell’ultima mano di poker…
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Maurizio Malavolta. Primi passi di giornalismo, da ragazzino, nelle redazioni locali modenesi: erano gli anni delle radio libere e dei grandi movimenti sociali e culturali. Studi tecnici e letture onnivore, la scoperta degli autori americani, la meraviglia della musica, il cinema e l’arte che cambiano il mondo.
Un lavoro, quello del giornalista, che assorbe sempre più, che porta lontano dallo studio formale e immerge totalmente nella vita della città, Modena.
Caporedattore e poi direttore di TRC, TeleRadioCittà, emittente storica e ancora attiva in Emilia-Romagna. Quindi il desiderio di lavorare più direttamente al servizio della città e dei modenesi: capoufficio stampa in Comune e poi capo dell’ufficio dell’allora sindaco di Modena Giorgio Pighi. Attualmente il tempo diviso tra il lavoro di responsabile della comunicazione della Fondazione Democenter, centro di ricerca e trasferimento di innovazione, e la scrittura di storie e racconti, cogliendo finalmente la straordinaria opportunità di poter raccontare una “realtà aumentata” mediante la libertà che discende dall’uso dell’immaginazione.
Primo capitolo
1 – Lunedì ore 8.00
– No. Come te lo devo dire: non mi occupo di politica, non me ne frega nulla della cronaca nera e, soprattutto, non voglio fare il capo di niente e di nessuno. Io sono un cronista sportivo. Hai capito bene questa volta? Per essere sicuro ripeto tutto con un giro di parole: non mi rompere più le palle con queste stronzate, altrimenti trovati un altro.
– Certo che me lo trovo e lo stronzo sei tu, ma come ti permetti? Io sono il direttore di questa televisione e non un tuo…
– Sì, va beh…
– Cooosa? Ma io ti faccio cacciare, anzi ti caccio io e non ti faccio più lavorare da nessun’altra parte, altro che cronista sportivo dei miei maroni. Se c’è bisogno tu fai quello che ti dico, fai la nera, fai la giudiziaria, fai la politica e, porcoggiuda, fai anche il capo. Questo è lavoro, mica il tuo divertimento… ma dove vai? Non ci pensare neanche ad andar via sai, e non sbattere la por... ”SPAAM”…ta.
Tutte le volte così, tutte le volte, ogni due settimane, allo scadere dei turni di redazione, la stessa storia: Giacomo Benedetti, direttore, chiede gentilmente a Franco Astolfi, cronista sportivo, di impegnarsi di più, di lasciar perdere calcio e pallavolo “che tanto uno che se occupi lo troviamo sempre” e di accettare la promozione che gli sta offrendo da tre anni, e cioè da circa sei mesi dopo che quello strano soggetto in cui si era trasformato il suo amico d’infanzia gli chiese di collaborare con la tv:
– Solo – sottolineò già allora – per lo sport, lo sport e null’altro.
Ma Astolfi era già troppo bravo per quella televisione di provincia e quando dopo poco i marpioni di un gruppo editoriale nazionale si accorsero del suo talento e gli offrirono un posto nella loro redazione romana, Benedetti capì di dover agire, subito.
– Franco, ho saputo dell’offerta che hai ricevuto e volevo dirti che…
– Non c’è nulla da dire, tranquillo, io non vado da nessuna parte, resto a Modena.
– Va bene, ovviamente sono contento, ma credo che dovresti fare anche altro…
– Mi stai scaricando?
– No, certo.
– Guarda che se sono di troppo, dillo subito.
– Non sei di troppo, mi lasci finire? Volevo solo dirti che, se vuoi, puoi lasciar perdere lo sport e venire in cronaca, magari gradualmente, ma credo che presto potresti darmi una grossa mano.
– Giacomo, non preoccuparti, non voglio fare altro che il cronista sportivo, non mi interessano gli altri settori e non mi interessa far carriera, quindi è tutto a posto, tranquillo.
– Sono tranquillissimo, Franco. Ok, per ora va bene così, ma credo dovresti pensarci su, prima di chiudere tutte le porte.
Un bel tacere per risposta, anzi, forse una frase tra i denti che Benedetti non riuscì a captare e Franco Astolfi prese la porta e si allontanò dall’ufficio. Per la prima volta. Ce ne furono molte altre negli anni a seguire, Giacomo si chiese spesso chi fosse diventato, anzi cosa fosse diventato Franco, la sua stessa età, stessi studi e stesso quartiere d’origine, il centro storico della città, tra troppo fighetti e troppo poveri, e in mezzo loro due, che fighetti non erano e mai lo sarebbero diventati. Ma ora lui, il direttore, era quasi calvo e aveva la pancia. Sì, una bella e brava moglie, due figlie super, lo spirito sostanzialmente integro, ma già vittima di una stanchezza cronica e apparentemente irreversibile. Franco, invece, a trentotto anni sembrava un ragazzo, alto, ben oltre il metro e ottanta, il portamento del militare di carriera e l’abbigliamento a metà tra Porta Portese ed East London, sempre i jeans e le scarpe da ginnastica, così come sempre la giacca di sartoria portata sulla t-shirt.
Non alzava mai la voce, né lanciava segnali di aggressività, anzi. Ma una volta, in un bar nei pressi della redazione, vennero disturbati da un gruppo di teppistelli da quattro soldi: piccoli, stupidi, ma numerosi. Giacomo tentò di calmarli in tutti i modi, con le buone e con le minacce, ma senza ottenere risultati. Franco, invece, non aprì bocca, ma a un certo punto semplicemente si girò e si limitò a guardare fisso negli occhi il capetto del gruppo. Di solito, per soggetti di quel tipo, lo sguardo diretto era considerato un affronto, molto più di una provocazione, soprattutto se davanti al suo pubblico, ma il ragazzino non sostenne lo sguardo, aprì la bocca una volta, due, e poi si allontanò seguito dagli altri. Giacomo chiese spiegazioni all’amico:
– Non preoccuparti, non è niente, – la bocca in una smorfia amara – è solo che un predatore riconosce sempre un suo simile e il meno pericoloso scappa.
Non volle aggiungere altro e Giacomo decise di non voler sapere altro. Poi ci furono altri segnali: assenze improvvise, casi di cronaca affidati ad altri e, lo aveva saputo di traverso, in realtà risolti da Franco, strani personaggi che ogni tanto lo contattavano.
D’altra parte di Franco Astolfi sapeva tutto fino a quando avevano avuto entrambi 19 anni e cioè quando, a sorpresa, l’amico era entrato all’Accademia militare. Non aveva concluso il corso di due anni per diventare sottotenente, a metà del secondo, bamm, era letteralmente scomparso, per oltre dieci anni. Giacomo non ne aveva saputo nulla fino al suo ritorno in città circa quattro anni prima e anche allora per molto tempo solo voci: che passava da un indirizzo all’altro, da un lavoro all’altro, fornaio, barista, taxista… fino a quando, una sera, gli capitò di salire proprio sul suo taxi a termine di una bella, ma per lui, rockettaro dentro, pallosissima rappresentazione della Traviata al Teatro Pavarotti. Sul cruscotto del taxi quella scritta, Avia Pervia, il loro motto da ragazzini, che voleva dire “rendere possibile l’impossibile”, uno dei simboli della città.
– Ciao Giacomo, come stai?
– Scusi, ma lei chi è, ci conosciamo?
Franco si girò appoggiando il braccio sullo schienale del sedile, sorrise e allungò la mano: – Sono io, non mi riconosci? Eppure dicono che, purtroppo, sono sempre lo stesso.
– Come purtroppo?
Non sapeva neanche perché gli fosse uscita quella domanda, assolutamente fuori luogo se rivolta a un amico che non si vedeva da oltre dieci anni.
– È una storia lunga, forse te la racconterò.
Improvvisamente Giacomo si rese conto del perché non avesse subito riconosciuto l’amico di tante scorribande giovanili, era la voce a non quadrare, una voce profonda, quasi sofferente nel far uscire le parole, che non gli tornava e che nemmeno si adattava alla persona che ricordava, ma che ora vedeva di fronte e che, ovviamente, gli era assolutamente famigliare. Scostò la mano e abbracciò l’amico nello spazio consentito tra i due sedili.
– Pezzo di merda, perché non ti sei fatto vivo? Avevo sentito del tuo ritorno, ti ho anche cercato, ma arrivavo sempre un attimo dopo che avevi cambiato casa, lavoro o fidanzata. Ma tu, tu sapevi dove trovarmi, perché tutti questi anni senza dire nulla?
– Anche questa è una storia lunga, ma stai tranquillo, ora è tutto a posto, vengo presto a trovarti.
– E no caro, ora che ti ho beccato non mi faccio mollare così, ci vediamo adesso, proprio in questo momento, lasciami solo telefonare a casa e poi ci facciamo una birra in via Gallucci, anzi aspetta un attimo… – Col telefonino chiamò Giulia, la moglie incinta della seconda figlia, le disse chi aveva incontrato e subito ottenne quel che si era aspettato, un invito a bere la stessa birra ma a casa loro, aveva anche lei voglia di vedere e abbracciare Franco.
Col taxi arrivarono in un attimo, ci furono altri abbracci e le birre, ma dopo quasi due ore, a notte inoltrata, mentre sulla porta salutavano Franco che andava via, si resero conto di aver parlato solo loro e solo delle loro cose ed ebbero entrambi la sensazione netta che il tutto non fosse stato casuale, che Franco avesse abilmente condotto la conversazione senza raccontare nulla di sé, anzi nulla di quel che era successo negli anni lontano da Modena, sembrava che il film della sua vita avesse semplicemente un grosso buco. Non che lo nascondesse, sembrava piuttosto che se ne curasse poco, non gli importava, sembrava interessato soltanto all’oggi. Comunque, promise a Giacomo che sarebbe andato a trovarlo in televisione.
Ci sperava, ma in fondo non ci contava molto. Franco, invece, si presentò subito il giorno dopo, non solo, gli chiese anche un lavoro.
– Vorrei occuparmi di sport, solo di sport. Se non puoi pagarmi non fa nulla, continuerò a fare il tassinaro, ma vorrei provare a mettere in fila le parole e raccontare qualche storia, cosa dici, mi fai provare?
Non poteva certo dirgli di no, ma nemmeno gli andava l’idea di essere lui a giudicare il suo amico e quasi certamente a comunicargli che quello non era il suo mestiere e che avrebbe potuto mettere meglio a frutto i suoi studi e la sua esperienza, qualunque fosse e ovunque l’avesse acquisita, in altri campi. Così decise di affidarsi al giudizio del suo caporedattore.
All’epoca Fabio Accorsi aveva sessant’anni, non gli piaceva nessuno e, soprattutto, non sopportava che gli appioppassero il ruolo di chioccia per i nuovi arrivati che, pertanto, spesso si trasformano rapidamente negli ultimi andati, stroncati e surclassati da uno specialista dell’insulto velenoso, che usava il dialetto come una pistola, che imprecava contro chiunque gli capitasse a tiro, il più delle volte in modo del tutto gratuito, senza un motivo, di solito anche senza un pretesto.
Se la vedesse con lui, Franco. La più che probabile stroncatura non lo avrebbe coinvolto e avrebbe potuto tranquillamente riprendere i rapporti con l’amico al quale, per altro, teneva moltissimo e che avrebbe certamente aiutato in ogni modo per assicurargli un lavoro decente. Era un atteggiamento leggermente vigliacco da parte sua, se ne rendeva conto, ma gli sembra anche il modo migliore per superare il problema.
Tutto questo avveniva di sabato. Domenica sera Accorsi mise la testa dentro l’aria della porta dell’ufficio di Giacomo: – Al tòo amigh, al n’è ménga un cavéc. Poco dopo il tg sportivo di ModenaTV conteneva il primo servizio a firma Franco Astolfi, una cronaca mai sentita in precedenza della partita di pallavolo, con un attacco spettacolare: Brividi, brividi distillati di autentica gioia, sette artisti di classe purissima hanno fatto vibrare insieme cinquemila cuori… E il resto era anche meglio.
Per questo ogni due lunedì si ripeteva la stessa storia. Giacomo leggeva o ascoltava i pezzi di Franco, quasi sempre da solo, perché spesso, come succede frequentemente agli appassionati di sport, gli veniva da piangere. Niente lo faceva commuovere più di un bel racconto di un’impresa sportiva e Franco era un maestro del genere, un artista, capace di toccare sempre le corde più profonde e nascoste dell’animo dello sportivo da divano, che inevitabilmente finiva incapace di parlare, con un magone grosso così all’altezza della gola, con le lacrime trattenute a stento e solo per pudore.
Dopo questa trafila e un caffè, Franco, abituato ad arrivare presto in redazione, veniva invitato nell’ufficio del direttore, si sentiva lusingare in tutti i modi e ogni volta la promozione gli veniva offerta in una luce diversa… il senso di responsabilità, i soldi, l’impegno sociale, l’amicizia nei suoi confronti ecc. Ogni volta rispondeva di no e ogni volta finivano a litigare, con tutto l’armamentario di insulti, parolacce e frequente licenziamento finale. Una potente incazzatura reciproca che durava fino a…
– Franco?
– Sì?
– Per favore, vieni qui, ho sentito una cosa sulla frequenza della polizia.
– Certo, non si tratta di sport?
– No.
– E allora cosa vuoi da me?
– Cazzo Franco, è importante e qui non c’è nessun altro.
– Ok, sentiamo….
«…non mandate auto coi simboli d’istituto, solo la Mobile e senza sirene» «di cosa di tratta?» «… non per radio» «ok, ma l’indirizzo devi darmelo» «ti arriva sul telefonino via sms» «accidenti… va bene, aspetto»
Giacomo guardò l’amico.
– Cosa ne dici?
Astolfi cominciò a pizzicarsi il lobo dell’orecchio destro tra il polpastrello del pollice e la seconda nocca dell’indice della mano sinistra, lo faceva sempre quando la smetteva di fare il cronista sportivo e sintonizzava il cervello su qualcos’altro.
– Non mi piace Giacomo, troppi misteri, troppa discrezione, cosa succede sulle frequenze criptate?
La polizia per radio parlava in chiaro, i carabinieri e la guardia di finanza, persino i vigili urbani, invece, criptavano le conversazioni. Le radio da intercettazione migliori, però, segnalavano comunque l’attività sui diversi canali. Giacomo si avvicinò all’apparecchiatura e vide che tutte le frequenze erano attive, non ebbe bisogno di dire nulla a Franco che colse immediatamente la sua espressione.
– Parlano tutti, eh? Allora è davvero successo qualcosa di grosso, chiama i neristi, presto.
– Dai, Franco, mentre arrivano i cosiddetti neristi chissà cosa può succedere, devi andare tu.
– Ma andare dove? Non hanno nemmeno detto la zona della città, anzi potrebbe essere anche in provincia, o magari anche più lontano.
– Non fare l’asino con me, usa una delle tue magie e datti da fare, questo non è uno scherzo, ci giochiamo culo e credibilità, e sai benissimo che al primo tengo molto, ma alla seconda quasi di più.
Franco si allontanò di qualche metro, compose poche cifre, evidentemente un numero speciale, e disse non più di cinque parole, prima di ascoltare per qualche istante. Chiuse la comunicazione e guardò Giacomo con evidente preoccupazione:
– Hanno rapito una bambina.
– Cosa?
– Sì, hai capito bene, hanno rapito una bambina e, – sospirò – mi dispiace molto, Giacomo.
– Di cosa, del rapimento?
– No… sì. È che non so come dirtelo…
– Mi sto spaventando Franco, cosa succede?
– Temo che la bambina rapita sia Livia.
– Livia chi? Non intenderai la mia Livia?
– Sì, Giacomo, tua figlia, poco fa Giulia ha chiamato la polizia per denunciarne la scomparsa.
Giacomo terreo in volto si mosse come un automa, estrasse il telefonino e controllò.
– Cazzo, ho lasciato la suoneria bassa da ieri sera, Livia ha chiamato già cinque volte, Franco, ma cosa sta succedendo? Perché Livia, perché un rapimento?
– Non lo so Giacomo, quel che so è che dobbiamo andare a vedere, dai, – circondò la spalla dell’amico col braccio sinistro e quasi lo sollevò di peso – andiamo.
Al tòo amigh, al n’è ménga un cavéc = Il tuo amico non è un cavicchio, ovvero uno stupido in dialetto modenese