Questa serie di racconti di Salvo Condotto sembrano foglie d’autunno svolazzanti che, nel loro liberarsi dall'albero, ricordano il vagare del personaggio interpretato dall'autore: brevi tragitti tra un qui e un là indefiniti - appunti sparsi di consapevolezza - percorsi con la medesima audacia del cercatore d’oro speranzoso della propria fortuna e la vivacità del bimbo che cade e si rialza senza sosta.
Lo stesso bimbo che sembra aver, finalmente, compreso come parlare attraverso un corpo adulto, anche di cose da grandi di confuso significato.
Si comprendono, allora, i continui riflessi sul rapporto con il femminino o sull'estetica della stranezza; parole difficili che, immediatamente, rimandano alla incertezza iniziale dell’adulto che inizia a porsi le domande.
L’impronta teatrale del testo insinua la penetrante e insistente sensazione di essere gettati in un mondo fatto palcoscenico, sul quale recita un istrionico personaggio che alterna un’indole shivaista a un’ispirazione da vagabondo con intento da guerriero tolteco; un sottile e cangiante filo li cuce in un insieme, solo a prima vista caotico, ma di una logica stringente.
Passepartout necessario per inoltrarsi nelle profondità del suo vagheggiante regno è, senza dubbio, la domanda: Come pensi di uscire da ciò che credi di essere?
Insomma, si tratta di un’opera prima leggiadra e, insolentemente, irriverente.