ROMANZO FINALISTA AL CONCORSO R COME ROMANCE 2019
Un viaggio nei ricordi. È questo che letteralmente Gioy e Alice stanno compiendo grazie a una macchina sperimentale capace di mettere in comunicazione le loro menti, alla ricerca di un ricordo che sprigioni un’emozione così intensa da risvegliare Alice. Perché questo è lo scopo del viaggio. Strapparla a un coma dichiarato irreversibile.
Primo capitolo
1
Le ore su quella strada umida erano trascorse senza fine. Il cofano continuava a divorare quella schiena grigia, bagnata e sporca oltre la quale, un paio di metri più in là, le era impossibile vedere. Fuori dai finestrini non c’era altro che una tela fitta, bianca e densa. L’unica porzione di mondo rimasta visibile era l’abitacolo nel quale era rinchiusa. Al pensiero di quei confini striminziti, Alice si sentì soffocare. Abbassò il finestrino per lasciare entrare un po’ di aria fresca in quella cella fatta di pelle e radica.
La nebbia in combutta con la notte l’avevano disorientata. Alice non era in grado di dire dove fosse e quanto tempo fosse trascorso da quando aveva avviato il motore. Il display del cruscotto si era guastato chissà quando. Lo teneva sott’occhio da parecchio, ma quello continuava a mostrare sempre la stessa ora: 21:17.
La donna strinse gli occhi, concentrandosi sulla strada mentre la sua mente ripercorreva gli ultimi momenti della giornata nella speranza di capire da quanto tempo era immersa nella coltre. Aveva lavorato oltre l’orario alla copertina del prossimo numero di Vita di Stile, aggiustando con Photoshop le sfumature dello sfondo, snellendo la modella in primo piano, ridefinendo i contorni e trovando un font accattivante per la headline. Solo quando tutto le risultò perfetto si accorse che fuori era già sera inoltrata. Chiuse il portatile e lo infilò nella borsa mentre usciva dall’ufficio. Alice non era il tipo a cui piacesse perdere tempo. Non si limitava mai a fare una cosa alla volta. Parlava al telefono mentre scriveva mail, controllava le foto e fissava appuntamenti, sempre di corsa, al ritmo frenetico dettato dalle responsabilità del suo ruolo di vice capo redattore.
Era rimasta sola con la donna delle pulizie. La penombra ammantava gli uffici open-space. Tutti gli altri avevano abbandonato la redazione, forse qualche collega l’aveva pure salutata prima di uscire e sicuramente lei aveva risposto con un cenno meccanico. Quando era al lavoro, Alice aveva la capacità di isolarsi in uno spazio privato, lontano e impenetrabile da qualsiasi distrazione. Se il palazzo fosse andato a fuoco sarebbe stata l’ultima ad accorgersene. Ricordava di essere salita in macchina diretta a casa con la testa ancora piena di dettagli da sistemare, di sfumature da aggiustare e di linee da assottigliare. Non c’era un istante nelle sue giornate che non lo dedicasse al perfezionamento del prossimo numero. Staccare dai suoi impegni equivaleva a sopprimerla e forse anche in quel caso i suoi ultimi pensieri sarebbero stati tutti per la prossima uscita di Vita di Stile.
I ricordi non andarono oltre. Una volta salita in macchina non c’era altro. Da quel momento in poi solo quella nebbia improvvisa e tenace. Alice avrebbe voluto scorgere una forma.
Un segnale stradale, il profilo di un palazzo. Una cosa qualsiasi pur di uscire da quella monotonia accecante. La nebbia rallentava il ritorno a casa e a quel pensiero Alice sentì un sottile sollievo alleggerirle la testa. Almeno adesso era sola, circondata dal silenzio, immersa in una pace rilassante. La notte la stava cullando, invitandola ad assecondare un desiderio mai confessato. Avrebbe escogitato qualsiasi pretesto pur di non dover rincasare. Solo l’idea di varcare la soglia di casa le sconquassava lo stomaco. Non era la prima volta che aveva pensato di prendere la via più lunga per il rientro. Giusto una manciata di minuti in più per godersi la quiete. Tanto lui era comunque a casa ad aspettarla. Si sarebbe aggrappato come sempre a un pretesto futile per rigurgitarle addosso tutto il proprio malessere. Un appuntamento fisso che si replicava senza sosta da ormai due anni.
Ti diverte umiliarmi. Godi della tua posizione e ti piace sbattermela in faccia.
In principio Alice pensò (e sperò) che sarebbe stato un momento passeggero, che prima o poi Gioy avrebbe accettato di vivere accanto a una donna in carriera. Dopotutto il suo stipendio permetteva a entrambi di vivere in un bell’appartamento in un palazzo signorile in via Vittorio Veneto, appena oltre Porta San Felice. A lei non importava da dove arrivassero i soldi e anche suo marito avrebbe potuto soffocare le frustrazioni e godersi lo stile di vita che potevano permettersi. Non era la prima né l’unica donna che avesse un lavoro migliore e uno stipendio migliore rispetto al proprio partner, anche se si potevano contare poche e sporadiche circostanze simili alla loro. Nonostante tutto, quella trasformazione non era ancora avvenuta e Alice iniziava a temere che mai sarebbe arrivata. Il malessere di Gioy era una crisalide di risentimento che cresceva giorno dopo giorno, sempre pronta a tramutare la loro quotidianità in una continua battaglia. Alice aveva perso il conto delle volte in cui lo aveva esortato a trovare un impiego, se non redditizio almeno fisso, in attesa che le acque si smuovessero. In principio, con amorevole comprensione, era disposta a consigliargli una soluzione che non gli impedisse di inseguire i propri sogni. Gioy però da quell’orecchio non ci sentiva. L’accusava di volergli tarpare le ali, di volere essere lei l’unica tra i due a prendersi il merito del loro benessere. Di essere quella da cui dipendeva tutto. Davanti a quelle accuse Alice non aveva armi con cui difendersi. Tentò per qualche tempo di opporsi, di fargli capire che si sbagliava, che tutto ciò che si augurava per lui era la sua soddisfazione, ma il livore accecante di Gioy ebbe sempre la meglio. Finché le energie e le speranze la sostennero, Alice si difese. Poi iniziò a incassare e, infine, passò al contrattacco, sperando sempre di sentire un giorno suo marito esultare dopo aver firmato un contratto con qualche editore che avrebbe fatto follie per assicurarsi uno dei suoi romanzi. Ma dopo quasi dieci anni di vita insieme quel giorno non era ancora arrivato.
Quel pensiero le fece apprezzare l’isolamento in cui era confinata. Come in una scatola cinese, dentro la notte, dentro la nebbia, dentro l’abitacolo, Alice poteva godersi un momento di pace.
Erano passate ore senza incontrare un segnale stradale che la indirizzasse in qualche centro abitato. In quella cortina pallida non era comparso neanche un incrocio. Poteva essere scoppiata la terza guerra mondiale o essersi abbattuta l’apocalisse che non avrebbe potuto saperlo. Era distaccata, impermeabile ai disordini del mondo esterno. Uno stato mentale che da tanto non era in grado di godersi. Lasciò che lo schienale le sorreggesse il busto. Distese i muscoli della schiena e appoggiò il gomito sul bordo del finestrino. Istintivamente, un sorriso placido le si accese in volto. Quella sì che era vita. Relax, serenità, nessuna distrazione. Quanto sarebbe potuto durare? Respinse l’interrogativo ai margini della sua mente. Non voleva essere proprio lei a compromettere quella quiete tanto agognata. Anche se fosse terminato di lì a poco se ne sarebbe goduta ogni istante come se fosse stato l’ultimo. Provò un’intensa sensazione di leggerezza all’altezza del petto. La sua mente si riempì di serenità. Come un filtro automatico vi entrarono solo pensieri piacevoli, pieni di luce e colori.
Luce e colori.
Alice si alzò di scatto. Come aveva potuto dimenticarsene. La copertina doveva essere passata al vaglio dal capo redattore e c’erano ancora delle imperfezioni, questioni di pixel, prima che venisse mandata in stampa a mezzanotte. Che ore erano? Aveva ancora tempo? Quanto distava da casa? La massa di interrogativi trascinò via tutti i pensieri leggeri come uno tsunami. Doveva chiamarlo, avvertirlo che aveva avuto un contrattempo a causa della nebbia e che al più presto avrebbe inviato la bozza corretta.
Iniziò a setacciare freneticamente con la mano all’interno della borsa mentre con l’altra teneva il volante. Maledisse la miriade di cianfrusaglie che c’erano dentro e che adesso sembravano divertirsi a nasconderle l’unica cosa di cui aveva bisogno. Il lato destro dell’auto tremò. Alice riportò entrambe le mani al volante e sterzò per rimetterla in carreggiata. Ancora poco e sarebbe finita nel fosso. Strinse gli occhi in cerca di uno spiazzo. Per quanto concentrasse la sua vista, non era in grado di vedere altro che la nebbia iridescente investita dai fari dell’auto. La linea bianca al bordo della strada filava inesauribile. Di un’interruzione che segnalasse un punto in cui sostare neanche l’ombra.
Strafottuta nebbia!
La bocca si seccò per l’apprensione. La vernice sull’asfalto non voleva saperne di interrompersi. Correva compatta alla velocità dei sessanta chilometri orari dell’auto. Alice sentì il cuore accelerare ben oltre quella velocità. Doveva fermarsi e cercare con calma nella borsa, ficcarci la testa dentro e scavare a fondo finché non avesse trovato quel fottutissimo cellulare. La striscia però non dava segni di cedimento. Alice iniziò a provare un singolare formicolio ai denti. L’avrebbe strappata a morsi se avesse potuto.
Dove cazzo ti sei infilato.
Il pensiero si fece voce, la voce si fece grido. Uno sfogo ovattato. Confinato agli spazi ridotti dell’abitacolo. Le vene sulle tempie si inspessirono. Ebbe l’impressione che la nebbia e la striscia bianca si facessero beffe di lei, divertite dalla nevrosi che le stava avvampando il volto. Alice picchiò il volante una, due, tre, dieci volte. Iniziò a piangere. Un pianto nervoso, dove ogni lacrima era un pesante pegno ceduto alla rabbia. Propese il mento sforzandosi di ricacciarle indietro.
Piantò uno sguardo fulmineo nello specchietto retrovisore che rifletteva il lunotto da cui si allungava la nebbia arrossata dai fari posteriori. Si volse verso il finestrino. Ancora la sua pallida nemica dall’aspetto candido, enigmatico e maligno.
Strinse il volante in una morsa degna di un boa. Avrebbe voluto sradicarlo dal cofano con tutto il piantone dello sterzo, frantumare i vetri, uscire e squarciare la nebbia, lacerarla pezzo dopo pezzo fino ad aprirsi un varco verso il mondo conosciuto, dove avrebbe trovato un punto sicuro in cui poter controllare in quale punto della borsa si fosse cacciato il suo dannato cellulare.
Quella fantasia ebbe l’effetto benefico di uno sfogo. Si placò quel tanto che bastò per tornare in sé. Aveva bisogno di cercare il cellulare con calma, chiamare il capo redattore e spiegare che avrebbe ricevuto la bozza in tempo. Alice fissò la strada che scorreva con quella maledetta striscia bianca che non accennava a prendersi una pausa.
Fanculo!
Schiacciò il pedale del freno riversando tutta la frustrazione che aveva in corpo. Le ruote strillarono nell’oscurità. Avrebbe giurato di averle viste fumare se non fosse che la nebbia inghiottiva qualsiasi cosa rendendo lo spazio circostante una massa informe identica a se stessa. Alice accese la luce dell’abitacolo. Una patina emaciata illuminò i sedili in pelle e il cruscotto in radica. Le sue mani scartarono oggetti vari in gesti nevrotici. Forse afferrarono il cellulare almeno una decina di volte senza riconoscerne le forme. Voleva fare in fretta. In quella nebbia nessuno l’avrebbe potuta notare prima che fosse troppo tardi. Più tempo trascorreva ferma in mezzo alla strada più il rischio di essere travolta diventava un’eventualità più che reale. In quel nulla assoluto nessuno avrebbe potuto chiamare i soccorsi. E anche se qualcuno li avesse chiamati, quanto tempo avrebbero impiegato per raggiungerla?
Alice doveva muoversi e, allo stesso tempo, mantenere i nervi saldi. L’agitazione non faceva altro che farle perdere secondi che non aveva.
Tranquilla Alice, adesso trovi il cellulare e ti rimetti in moto. Non arriverà nessuno prima che tu non l’abbia trovato. Tranquilla. È questo? No, è solo lo specchietto. Questo è un pacchetto di fazzoletti. Ma dove diavolo l’avrò... Cazzo! Alice, calma. Così non va. Riproviamo. Il rossetto, il portafoglio, il quaderno, l’agenda, gli assorbenti. Dietro. Mi è sembrato di sentire un rumore. Qualcuno sta arrivando. Da dove? Non vedo niente. Davanti e dietro. Nulla. Forse era la mia immaginazione.
Inspirò profondamente. Una boccata di ossigeno e spensieratezza prima di riprendere la ricerca.
Eccolo!
Estrasse lo smartphone dalla borsa guardandolo con l’ammirazione di una madre quando vede il proprio bambino venire al mondo. Premette il pulsante dell’accensione. Lo schermo s’illuminò di una luce azzurrognola e intensa. Alice sorrise come se davanti a lei si fossero aperte le porte del Paradiso. Tutta l’agitazione svanì nel chiarore del display, avvolgendo la ragazza e l’intero abitacolo in un abbraccio etereo. Il senso di vittoria durò appena un istante. Il sorriso di Alice si contorse in una smorfia delusa. Il sapore della beffa le sprigionò un acido sapore in bocca. Non c’era segnale. Niente. Neanche una tacca. Scosse il cellulare nella vana e infantile speranza di fargli agganciare la rete. Nulla da fare.
Lo schermo si spense insieme alle sue speranze, con l’oscurità che tornò a farle compagnia. La cornice perfetta della sua delusione. Si sentì sciocca e inerme. Una bambina abbandonata al buio. Odiava sentirsi così. Erano bastate un po’ di nebbia e un cellulare senza segnale perché la sua capacità di avere sempre la situazione sotto controllo si sbriciolasse. Il fragore delle macerie della propria autostima le impedirono di udire il ruggito di un motore alle sue spalle che sopraggiungeva a tutta velocità. Vide due occhi di luce ingrandirsi sullo specchietto retrovisore. Occhi severi, dal taglio rabbioso. Si volse verso il lunotto non potendo fare altro che constatare il boato del motore che spingeva quelle due sfere come una sentenza. Prima che la paura potesse emergere, l’inevitabile le era già addosso. Alice serrò gli occhi per non assistere all’impatto devastante. Il ruggito del motore fece vibrare i cristalli dell’auto prima di farli esplodere in migliaia di schegge. Il frastuono fu così intenso che Alice lo sentì vibrarle dentro.
Cadde un improvviso silenzio. Il buio era tornato prepotente e repentino. La donna riaprì gli occhi ancora tremanti. I nervi irrigiditi dalla paura. Dell’auto che stava per travolgerla non c’era traccia. Eppure l’aveva vista, l’aveva sentita correrle incontro a tutta velocità. Un’allucinazione? Troppo vivida per essere vera. Stava avendo un principio di esaurimento nervoso? No, non era possibile. La macchina era reale, di questo ne era convinta. Non stava impazzendo. Scrutò attraverso i vetri in cerca di luci in lontananza con le orecchie tese per cogliere il rombo lontano di un motore, ma oltre la nebbia e la notte c’era solo un silente nulla.
Il whisky ondeggiava nella bottiglia, cullato dal dondolio dell’auto in movimento. Parcheggiò a ridosso di un vecchio palazzo popolare dalla facciata scrostata. Lo sguardo di Gioy si inabissò in quello stagno ambrato che non vedeva l’ora di prosciugare alla ricerca di un oblio confortevole, dove i ricordi non sarebbero stati altro che una danza confusa e distorta di suoni e immagini.
Sei al telefono con lei. Le parli, senti la sua voce. All’improvviso un frastuono. Gli strilli delle ruote che si lacerano sull’asfalto. Poi il silenzio.
Riuscì a scollare gli occhi arrossati dalla bottiglia solo per volgerli allo scatolone pieno di quaderni, diari e oggetti vari che erano appartenuti a sua moglie. Intorno a sé non vide altro che scampoli opachi di un paese di provincia. Non era solo la giornata uggiosa che sviliva le tinte rosse dei palazzi. C’era anche il suo umore a gettare una patina opaca che spegneva qualsiasi colore. Dentro di sé c’erano solo delle sfumature anonime di un mondo senza senso. L’uomo scolò il whisky tutto d’un fiato mentre fissava dal basso verso l’alto il palazzo che si ergeva sopra di lui. Stirò una smorfia e prese lo scatolone, spalancando lo sportello. Il vento gelido dicembrino gli fece tremare la pelle mentre la mente tremolò per l’alcool, scrollando di dosso i pensieri dolorosi che l’appesantivano. Sentì la testa volteggiare leggera. Finalmente.
Imboccò il portone del palazzo popolare, attraversando lo stretto passaggio di lato, con lo scatolone tra le mani. Tre piani di scale per raggiungere la meta che aveva le sembianze di sua suocera, Valeria, anche se lui non aveva mai smesso di riferirsi a lei con un più formale “Signora Merighi”. Al primo scalino, Gioy vacillò. Di istinto afferrò il corrimano, lasciando cadere lo scatolone a terra. Imprecò biascicante cose di cui non era certo neanche lui. Con i movimenti rallentati, riprese lo scatolone e osservò la spirale di rampe che si allungava oltre la sua testa. Perché non era rimasto a casa? Perché non aveva trovato una scusa qualunque? Non aveva proprio voglia di incontrare la signora Merighi e affrontare gli stessi identici discorsi. Giunto al pianerottolo, pensò che un altro sorso di whisky ci sarebbe stato proprio bene. Si maledisse per essersi scolato tutta la bottiglia in macchina ora che sentiva il bisogno bruciargli dentro. Davanti alla porta, dove accanto il campanello recitava “V. Merighi”, Gioy trasse un lungo respiro e suonò.
Una signora in abito blu scuro aprì. La signora Merighi era una donna che a dispetto dei suoi sessantasette anni aveva un volto con poche timide rughe. Le mani invece erano più in linea con l’età. Dita rattrappite con i polpastrelli inspessiti da una vita passata al freddo d’inverno e al caldo d’estate, sempre immerse nella terra che il duro lavoro dei campi richiedeva.
«Prego, Giovanni, accomodati.» Si fece da parte con un sorriso cordiale e un tono caldo. L’uomo entrò mantenendo un’espressione il più statica possibile per non tradire lo stordimento che ne ottenebrava i riflessi e la mente.
«Qui ci sono tutte le sue cose.»
Appoggiò lo scatolone sul tavolino vicino al divano. Il soggiorno del bilocale era di dimensioni ridotte, pervaso da un profumo di muschio selvatico che gli donava però un’atmosfera accogliente e piacevole.
«Posso offrirti un caffè? Ho la macchinetta sul fuoco.»
«La ringrazio, ma non mi tratterrò a lungo. Devo sbrigare delle cose.»
Gioy parlò lentamente per evitare di biascicare. La vista tremolante vagò per la stanza del piccolo bilocale. Al lato est c’erano delle mensole piene di foto incorniciate, ordinatamente disposte in obliquo sopra un’antica madia con il ripiano in marmo. Giungendo dalla camera da letto, con un colpo d’occhio, si sarebbero potute vedere tutte insieme. In alcune era immortalata la giovinezza di Alice. Gioy sentì una fitta al cuore davanti alle immagini di sua moglie da bambina.
«Era bellissima, non è vero? Quando ti guardava con quegli occhioni blu non sapevo resisterle.» La signora si interruppe prima che la commozione potesse prendere il sopravvento. Gioy si limitò a un cenno. Quanto aveva ragione. Si era innamorato di quegli occhi blu oceano al primo sguardo. Non c’era naufragio più dolce se non perdersi in quelle piccole sfere blu. Per lui, almeno, era così.
La signora prese una delle foto e, osservandola amorevolmente, la avvicinò all’uomo. «Questa ce la scattarono per festeggiare la fine del raccolto.»
Alice non doveva avere più di sei anni, in piedi tra la madre e un uomo tarchiato, dalla mole possente e dallo sguardo serio, che intuì essere il padre, anche se non l’aveva mai visto in vita sua. Alle loro spalle un grande casolare in pietra con un portone dai battenti a forma di testa di leone.
«Questo deve essere...»
«Sì. Ci ha lasciate quando lei aveva vent’anni.» Ripose la foto sulla mensola serrando le labbra. «Non posso pensare che anche lei possa lasciarmi.»
Un disagio intenso iniziò a farlo sentire sulla graticola. L’urgenza aumentò. Gioy sentì un grave peso piombargli sulle spalle e strattonargli il cuore a terra. Non aveva la forza per sostenerlo, non adesso, non in quel momento. A dire il vero, forse non l’aveva mai avuta. Voleva solo sbrigare la faccenda il più in fretta possibile, salire in macchina, tornarsene a casa e annegare nell’alcool. Tutto quello che chiedeva era di avere il tempo per annegare i propri dolori e godersi la pace ondeggiante che whisky e birra potevano dargli per almeno qualche ora, prima che il dolore riemergesse.
«Prego giorno e notte perché torni da me. Tutto quello che mi è rimasto sono queste foto e quello scatolone» un attimo di pausa per mantenere il contegno. «Che sciocca che sono. Non ti ho neanche chiesto come stai» sorrise la signora Merighi, imbarazzata.
Gioy fece finta di guardare l’orologio al polso. «Adesso devo proprio andare.» Si avviò all’uscita per conto suo. «Se dovesse avere bisogno di altro non si faccia problemi a darmi un colpo di telefono.»
La signora gli aprì la porta. L’uomo si impose di non incrociare gli occhi supplicanti della suocera. Sapeva bene il gravoso significato che portavano. Li mantenne fissi davanti a sé, sul pianerottolo e poi giù per le scale. Valeria Merighi lo vide sparire oltre la rampa, pregando per il genero. Una preghiera che aveva il suono della supplica. Il borbottio della macchinetta la ridestò. Chiuse la porta e si versò una tazzina di caffè fumante. Tenendola con entrambe le mani, si avvicinò allo scatolone dentro cui erano disordinatamente disposti quaderni, diari, astucci e qualche foto. Ne prese uno dalla copertina rigida in ecopelle nera. Lisciò con il pollice la superficie pensando quanta vita di sua figlia Alice potesse esserci lì dentro e quanto poco avrebbe potuto scoprire di conoscerla. Da sola, nel bilocale accogliente pervaso dal profumo di muschio selvatico mischiato all’aroma del caffè, la signora Merighi si concesse il lusso di piangere.