Lo sport come mondo assoluto dove la vita prende forma e i ricordi diventano storia. Attraverso gli eventi vissuti in prima persona e come spettatore, l’autore esprime la forza che può scaturire da una competizione sportiva, il fluire dei sentimenti, le passioni, le delusioni. Ciò che appare come semplice momento di svago, si trasforma con la scrittura di Bonato in una profonda riflessione sulla vita. Così accadeva nelle cronache di Gianni Brera che seppe far riflettere intere generazioni sui significati non banali che sono racchiusi in una partita di calcio o in una competizione ciclistica.
Primo capitoloGianni Brera
Julia non ama tanto parlare di lavoro, ma in questo caso
lo scrivere (non lo trascrivere, che è simile, ma quello è stato
il mio primo lavoro) è veramente la mia passione; dicevo
che Julia vorrebbe che scrivessi un po’ una storia, parlare di
storia ché i giovani di oggi poco sanno di questa materia.
Le ho detto: “In che modo Julia?”
Lei rispose: “Non so, tua mamma è fiumana, è nata a
Fiume, tu hai da poco conosciuto le gesta di Fausto Coppi
narrate da quel giornalista lombardo che ti piace tanto, un
certo Brera credo, Coppi era l’idolo ciclistico di tuo padre,
insomma, questa è storia, no?”
Fausto Coppi - In effetti sì, mio padre amava il campionissimo.
Me lo disse talmente tante volte che Coppi mi venne
a noia. Lo so, sono nato quando Coppi era già morto, ma la
storia comprende anche questo tipo di situazioni. “Eh, non
conosco la serie Happy Days perché non ero ancora nata”,
disse una giovane problematica dai capelli azzurri da fata
fatta.
“Cavolo c’entra, anche io quando Coppi correva non ero
ancora nato.”
Invece mi sono interessato di Coppi direi da poco, anche
se sapevo un po’ delle sue gesta, perché ho riscoperto un
celebre scrittore, Giovanni Brera, da tutti chiamato Gianni,
che lo decantava.
Coppi e il diavolo è il titolo di un romanzo sportivo che
sciur Brera scrisse, e Julia, dopo tanto girare, me l’ha fatto
avere dalla libreria Feltrinelli.
Brera, se qualcuno non se lo ricordasse, è stato uno dei
giornalisti più avvezzi con la lingua italiana; fu lui che introdusse
numerose nozioni lessicali tanto da cambiare di un
bel po’ il gergo del mondo del calcio. Anche se la sua prima
passione, oltre che la letteratura, fu il ciclismo. Diventarono
tanto famosi i suoi articoli sia sul Giro d’Italia e sul Tour de
France, dove era inviato dalla Gazzetta dello sport, insomma
vendettero talmente tante copie da far diventare lo stesso
Brera Direttore della Gazzetta dello Sport, un po’ il simbolo
del giornalismo in Italia, una nave scuola.
Io lavoro con gli scuolabus, e sulla linea K agisce un autista
non giovanissimo, prossimo ai 60 anni. Per caso mi
trovai a sostituire l’accompagnatore titolare della linea, un
uomo simpatico e un po’ curvo, e così scoprii l’autista che
seppe qualcosa di più su Gianni Brera.
Copernico, questo il suo nome, mi disse che guidava
l’ambulanza che ha portato Brera all’ospedale, oppure quel
mezzo in cui si constatò il decesso del compianto giornalista,
dopo una terribile collisione nei pressi di Codogno
(paese della Lombardia dove nacque e si sviluppò la pandemia
tragica che uccise migliaia di persone, perlopiù anziane
nell’anno 2020), dove la via Emilia, che parte da Rimini e
finisce a San Donato Milanese, si sfrangia, si consuma in
tante pozze ai bordi della strada, una strada che poteva asso7
migliare a quelle che lo scrittore Brera descrisse quando era
l’inviato per i grandi giri del ciclismo nei suoi anni d’oro,
strade dissestate e non bitumate o asfaltate, strade impervie
e infernali.
“Un fauno, sembrava un fauno il signor Brera, con quei
capelli all’insù, quella barbetta ispida, quegli occhi ancora
vivi e un po’ malinconici”.
Ma pensai: a Copernico parlo di Brera e lui mi racconta
di averlo scortato per la strada della morte, a Codogno, un
tempo paesotto in provincia di Milano, invece nel ’92 passò
al Lodigiano. Un giornalista di quelli che non nascono e
non se ne vedono più, con una passione per lo sport, per le
donne, per il bel mangiare, per il buon vino della sua zona,
la cosiddetta bassa.
Intanto, mentre lo scuolabus nuovo ansima tra le stradine
del Forese di Rimini, dopo alcuni ciclisti, che sembravano
impantanati nei campi brinosi del primo mattino, avvistammo
una lepre che andava di corsa, per procacciare il
mangiare per i propri cuccioli. O forse poteva essere stato lo
stesso Gianni Brera che se durante la vita ebbe una corpulenta
figura, qui, almeno nei racconti che ci scambiavamo io
e Copernico, sembrava una maestosa lepre, veloce e bella da
vedere, aggraziata. Una lepre difficile da rincorrere.
Ormai leggo da qualche giorno un libro di Brera. Mi
faccio prendere qualche volta dalle passioni io, anti-social e
anti-empatico per eccellenza, che però sa di essere simpatico
ma con gli altri spiccica solo qualche sparuta parola, un accavallamento
di frasi un po’ confuse, convulse e stancanti,
anche proprio per sé stesso. Non parlo molto quando sono
sugli scuolabus, ma non parlo molto in generale, ecco forse
il perché dell’utilizzo della scrittura come unico e salvifico
mezzo di comunicazione tra me e gli altri.
Coppi, idolatrato da mio padre, per mezzo di Brera, che
mi sembrava anche un po’ altezzoso quando ero giovane ma
ne aveva ben donde, arrivò anche a me, seppur in un periodo
invernale tetro e gelido. Prima dello pesante spruzzo di neve
nel febbraio 2018, i miei pensieri e i miei sensi, inframmezzati
dalle parole pacate e tutto sommato culturali di Copernico,
fecero non solo diventare la nostra linea k una linea
k come kultura, ma mi fecero intuire che stavo per essere
rapito nuovamente dalle biciclette.
“Guarda”, mi fece Copernico, “sai che il padre di Marco”
(un ragazzo intollerante e capriccioso, che non sembra italiano,
nonché troppo lungo per la sua età) “era l’autista del bus
che accompagnava solitamente Marco Pantani?”
In Romagna, di solito, al figlio si affibbia il nome del
nonno.
In realtà io odiavo un po’ Copernico, solamente perché
lasciava che i bambini (di solito però li chiamiamo ragazzi)
andassero a zonzo per lo scuolabus, senza sedersi e senza cinture.
“Spaccatevi la testa, sì? Dopo in galera ci andiamo io
e Copernico!”
“Ah, ma quello prima di te ci fa stare così”, dissero all’unisono.
“Sì, ma adesso ci sono io!” E lo dissi con trepida ansia,
come se un fulmine divino arrivasse e prima o poi potesse
spaccarmi in due la testa. La parte Effe e quella Emme.
In realtà non ho amici e Copernico è timido, nonostante
il suo nome sia così evocativo. Un tempo li avevo, ma non
era vera amicizia. Io sto male anche solo con Julia, con gli
altri sto peggio che da solo con me stesso, anche se soffro un
po’.
I miei unici amici sono gli angoli nascosti di Rimini, i
bar senza baristi, i saloni da barbieri senza coiffeur, le discoteche
senza gli astanti, gli ospedali senza dottori, le sale
mortuarie senza morti.
Invece mio padre morì e io, non avendolo toccato negli
ultimi istanti di vita, lo sfiorai dopo poco la morte, ma non
fu la stessa cosa.
Morì come il giornalista che rincorro, Gianni Brera.