Nell’America immaginaria del noir classico, un critico cinematografico di successo viene incaricato di scrivere un reportage sui detective privati nella realtà.
Si trova così a seguire un investigatore, dagli apparenti modi da “duro”, durante una indagine riguardante il delitto di un collega del critico.
L’ambiguo rapporto che si stabilisce tra l’uomo d’azione e l’intellettuale mondano è il filo conduttore della storia nella quale incontriamo quasi tutti i personaggi e le situazioni del poliziesco americano, tra cui una avvenente dark lady, vera e propria protagonista al femminile, e l’immancabile mistero della camera chiusa (che per l’occasione è un cinema).
Questo romanzo è un omaggio, in parte ironico e nostalgico, al genere in questione e al cinema noir.
Primo capitoloI
Era un suono distante e impreciso, poi pian piano divenne sempre più acuto e ossessivo, come se un martello pneumatico stesse penetrando alle radici della terra in qualche posto sperduto del mondo. La sveglia stava trillando.
Socchiusi gli occhi, vidi la luce che filtrava dalle tapparelle abbassate e con un gesto meccanico cercai tra i vari oggetti sparsi sul comodino. Trovai la sveglia, la spensi e mi rigirai dall’altra parte. Mi sentivo come un animale in letargo svegliato all’improvviso nel cuore dell’inverno. Mi sentivo come tutte le mattine che seguono le serate come quella del giorno precedente. Niente di eccezionale, ovviamente, solo un party che segue una “prima”. Solo drinks, discorsi inutili, sorrisi di circostanza, occhiate furtive alle bionde con lo spacco che siedono sempre, ci puoi scommettere, con le gambe tanto incrociate da suggerirti immaginari percorsi proibiti.
Stavo per riaddormentarmi quando mi venne in mente che non avrei passato un’altra giornata a scrivere o a visionare pellicole inedite. Probabilmente non sarei passato nemmeno al mio giornale, il Morning Star, ma promisi a me stesso che avrei chiamato Helen al Journal appena possibile. Non c’era donna nel nostro ambiente che fosse più ambita come segretaria, impiegata o per qualsiasi altro lavoro che permettesse di ammirarla otto ore al giorno, dal lunedì al venerdì.
Aprii di nuovo gli occhi, vidi che erano le sette e quarantacinque, mi stirai per bene e mi misi faticosamente a sedere sul letto, deciso a non arrivare in ritardo all’insolito appuntamento che avevo quella mattina, se mai fossi stato capace di un’impresa simile.
Alzai le tapparelle, aprii la finestra e gettai uno sguardo sulla parte della città che potevo scorgere dal dodicesimo piano. Era una giornata incerta, il sole splendeva in uno squarcio di cielo sereno, ma, dall’altra parte, pesanti nuvoloni formavano una cappa immobile sopra i grattacieli. Eccola lì, la città, che procedeva ancora ad un ritmo lento come un treno in partenza, pronta ad accelerare improvvisamente per poi rallentare di nuovo a notte fonda, ma senza mai fermarsi. Era impossibile pensare che una metropoli come questa potesse dormire, anche per un solo minuto.
Lasciai la finestra aperta, andai in cucina a preparare il caffè chiedendomi quando mi sarei deciso a risistemare tutti gli oggetti fuori posto sparsi per l’appartamento. Avrei fatto inorridire mia moglie, se ne avessi avuta una. Ritornai in cucina lavato, pettinato e rasato con cura nel momento in cui il caffè cominciava a scendere. Ne bevvi una tazza bollente e iniziai a sentirmi un po’ meglio. Rinvigorito dal caffè, indossai velocemente il completo grigio con giacca a tre bottoni: un vestito, pensai, adatto ai miei impegni di quel giorno, abbastanza elegante ma allo stesso tempo sportivo, in modo che i miei attributi fisici non apparissero troppo in primo piano, ma non fossero nemmeno sminuiti da un abito classico, come quello che indossano i politici davanti alle telecamere. Mi annodai la cravatta con cura dinanzi allo specchio del soggiorno, diedi una spolveratina con la mano assicurandomi che tutto fosse in ordine e osservai il mio volto.
Lo osservai con attenzione, come tutte le mattine prima di uscire. E come tutte le mattine non lo trovai affatto male. Era già da un po’ di tempo che avevo messo da parte l’illusione di essere affascinante come Clark Gable mentre bacia Vivian “Scarlet” Leigh in primo piano, ma d’altra parte non credevo nemmeno di essere un semplice volto tra la folla, se capite cosa voglio dire. Era ancora abbastanza giovane e attraente, con uno sguardo penetrante e intelligente - primissimo piano sugli occhi - pensai. Non nego che la fortuna mi abbia dato una mano, ma è stato proprio sfruttando queste doti che sono riuscito ad arrivare dove sono ora. Conduco una vita che mi soddisfa, ho un lavoro che mi piace, frequento persone di un certo livello sociale che spesso critico ma che in fondo ammiro. E per ultimo, anche se non meno importante, sono un vero tombeur de femmes, e questa volta sono certo che capite cosa voglio dire. Come saprete, godo anche di una certa notorietà: mi chiamo Archie Seewrite, e se non mi avete mai sentito nominare non siete dei veri appassionati di cinema. Vi possono anche essere sfuggite le mie recensioni, ma il mio ultimo libro, Hollywood Muore?, lo conoscete senz’altro. Mi rendo conto che in tutto questo non c’è niente di eccezionale; la storia della mia vita non sarebbe certo una buona sceneggiatura per un film di successo, ma le avventure affascinanti le vedo quasi tutti i giorni nel buio di una sala, e questo mi basta.
Tornai in cucina, bevvi un’altra tazza di caffè e decisi di far colazione fuori. Afferrai il soprabito leggero e uscii. Non avevo tempo da perdere: avevo appuntamento con un detective privato.