Tina ha solo ventiquattro anni, è bella e determinata. ll quattro dicembre '42 si reca in profumeria, dove lavora, sognando di odorare la fragranza di fiori e bergamottto del profumo “tempio dell'amore" Shalimar di Guerlain, il suo preferito.
Ma la vita ha in serbo per lei altri progetti...
Quello è un giorno cruciale per le sorti della guerra sul fronte italiano. Napoli viene bombardata a tappeto dagli Americani; le conseguenze sono drammatiche.
La gente è colta alla sprovvista; sono colpite case, chiese, ospedali, uffici e negozi e molte persone rimangono sepolte sotto le macerie. L'attacco non viene intercettato dalla contraerea e le sirene d'allarme non suonano.
In una Napoli devastata dal conflitto Tina, i suoi fratelli e le sue sorelle, affrontano i cambiamenti necessari e dolorosi determinati dalla guerra senza perdere la voglia di vivere e la speranza del domani.
Primo capitoloLa luce dell’alba penetra discreta attraverso gli scuri socchiusi. Via Toledo è muta. La immagino lucida, pulita, bagnata dalla pioggia copiosa caduta durante tutta la notte. Mi arrotolo nelle coperte, crogiolandomi nel caldo tepore, sento le punte dei piedi che già si tendono, pronte al balzo, mi attardo… “È presto! - sussurro a me stessa - in fondo mi aspetta un’altra giornata di guerra, che fretta c’è?”. Cerco conforto nella penombra della camera, l’ottava di questo appartamento di undici stanze disposte in circolo intorno a un porticato in un palazzo dell’ottocento di via Carlo De Cesare, all’angolo tra via Roma, che noi napoletani ancora chiamiamo via Toledo, e piazza Trieste e Trento. Mi piace la mia camera, ereditata da zia Memena, la maggiore delle sorelle di mia madre. È l’unica che gode di una vista meravigliosa: a destra vedo piazza Plebiscito, sporgendomi riesco anche a scorgere i locali dove, prima della guerra, c’era lo storico Caffè Gambrinus e che adesso, invece, accolgono il Banco di Napoli. Sul lato opposto via Toledo si snoda in un susseguirsi di svolte: verso i Quartieri Spagnoli se la costeggi a sinistra, verso la Galleria Umberto sul lato destro. Due luoghi della stessa città, due facce, due anime, due mondi separati eppure così profondamente uniti dagli umori, gli odori, le voci della gente che, nonostante la guerra, non perdono vivacità e accenti, non sussurrano e non si placano, in un tramestio incessante. L’orologio a pendolo della sala grande ancora non suona le sette; il cielo è plumbeo; l’odore del caffè, che mi sembrava di avvertire così invitante, altro non è che puzzo di cicoria e oggi sarà come ieri, una giornata convulsa, tra gente chiassosa ed esitante che cerca di vivere con normalità la condizione più anormale che un essere umano sia costretto a subire: la guerra. Saranno i miei ventiquattro anni che non si rassegnano alla bruttura della guerra; sarà che ieri sera con mio cugino Renato siamo andati a perlustrare il San Carlo come facevamo da bambini, protetti dalla complicità di Ciro, il custode, che ci conosce da sempre e che ancora ci permette queste “bravate”; sarà l’emozione di aver ricevuto in dono da Ciro una scatola di latta azzurra contenente pacchi di lettere e foto, cartoline e nastri colorati appartenuti a mia madre e conservati in un locale abbandonato del teatro dove mio padre, tempo addietro, aveva seppellito il dolore della morte di mamma e i suoi sogni di vita… Saranno queste emozioni che mi fanno fremere stamattina e mi invitano ad andare incontro alla giornata? Mi guardo nella specchiera ovale della toletta, passo la spazzola nei miei capelli biondi, non c’è bisogno di pettinarli troppo, le onde naturali si sistemano docili intorno al viso. Indugio invece sugli occhi, scrutando le ciglia bionde e arruffate. Per sistemarle dovrò usare quell’arnese complicato che mi ha costretto a comprare la collega della profumeria: un piegaciglia in acciaio, un vero attrezzo di tortura. Marisa sostiene che fa miracoli ma io non riesco mai a usarlo senza infi larmi la punta negli occhi, così tutte le volte esco con gli occhi rossi e le ciglia bagnate da lacrime di dolore. Stamattina non ci provo neanche, la città mi chiama e voglio vederla senza lacrime. Scelgo un abito con i fi ori, a fondo verde, uno dei pochi che non sia stato rivoltato, con ancora intatta la sua bellezza. Il verde è il mio colore preferito, forse perché si intona con i miei occhi o perché ogni volta che indosso un vestito di questo colore mio padre mi osserva con fare canzonatorio e mi dice: “Chi di verde s’ammanta della sua bellezza si vanta!”. E io rido e sono felice di piacergli. Sento che questa giornata mi porterà delle cose nuove, alcune già le assaporo, come l’incontro di stasera con Renato per aprire la scatola azzurra. Ci siamo dati appuntamento alle otto, terminato il lavoro in profumeria; mangeremo un pezzo di pane che papà ha portato ieri dai Silos e lo divideremo in parti uguali. Starò attenta che Renato non faccia il furbo. È sempre pronto ad anticiparmi e riesce a mangiare di tutto, anche quella pasta nera piena di colla che ultimamente siamo costretti a comprare con le tessere annonarie. Invidio molto il suo buon appetito: io, per quanto mi sforzi, non riesco proprio a mandar giù certe porcherie. Sarà per questo che da qualche mese i miei fi anchi si sono assottigliati. Se mi guardo allo specchio non mi dispiace la mia fi gura più asciutta: la dieta di guerra potrebbe persino essere l’ideale per ragazze tendenzialmente in carne come me, se non fosse per quegli antipatici brontolii nella pancia che mi ricordano, inevitabilmente, le privazioni quotidiane a cui ci ha abituati la guerra. Spesso, di notte, sogno di mangiare i miei piatti preferiti, che in questi mesi di stenti sono diventati solo un ricordo. E allora mi sveglio di soprassalto, con l’illusione di sentire gli odori prelibati provenire dalla cucina. Il pendolo nella sala grande batte le otto… dio, quanto tempo ho perso a trastullarmi! Mi affaccio al balcone: questo mese di dicembre è rigidissimo, fa freddo e minaccia pioggia. Metterò il cappotto grigio ed il cappellino verde, così potrò indossare l’unico paio di guanti decente che mi è rimasto, grigio come il cappotto. Sento Lilli che guaisce fuori dalla porta - è l’ora delle coccole - la lascio entrare per il solito rituale mattutino. Un salto sulla poltrona, una carezza, il musetto bagnato che sfi ora le mie mani regalandomi un bacio, gli occhietti furbi che tentano di convincermi a portarla giù, nel cortile del palazzo, al solito incontro animato con i gatti del quartiere. “Non ho tempo stamattina, Lilli, ci penserà Giuseppina a farti uscire”, le sussurro accarezzandola. Rassegnata, la vedo trotterellare dietro di me con la coda impertinente. Sto per chiudere la porta della mia stanza, ma sento il bisogno di fermarmi a guardare quell’angolo di mondo solo mio, l’unico che mi appartenga davvero, che custodisce i miei sogni, la mia vita, il passato, gli abbracci di mia madre, il suo profumo… mi sembra di sentirlo mentre poggio la mano sulla maniglia. Aspetto ancora un po’, a occhi chiusi, per cercare di catturare il ricordo di quell’odore così familiare. Ma è ora di andare. Mia madre è morta quando avevo quattordici anni. Da allora tutta la mia vita è cambiata: sono diventata io la madre dei miei fratelli, almeno fi no a quando papà non ha deciso di sposare una cugina della mamma, zia Erminia. In cucina Mario e Giuseppina hanno già fatto colazione sotto lo sguardo vigile di zia Erminia e sono pronti per uscire. Un po’ invidio la loro condizione: Mario, nonostante la guerra, è riuscito a diplomarsi al liceo scientifi co e ora pensa di iscriversi all’università. Giuseppina frequenta l’ultimo anno nello stesso istituto, è una studentessa modello, e in famiglia la sua cultura è un punto di riferimento. Stamattina manca mia sorella Antonietta che, avendo lasciato la scuola ad appena quattordici anni - con grande dispiacere di mio padre - dopo aver preso il diploma di avviamento è andata a dare una mano all’orefi ceria della famiglia di mia madre, in via San Giacomo. Spesso lei resta giorni interi a casa delle zie materne, coccolata e viziata dalle sorelle Denaro (esiste cognome più appropriato per le proprietarie di un’orefi ceria?). Nell’angolo in fondo al grande tavolo da cucina vedo il piccolo Ciro, gli occhi ancora assonnati, che tenta di inzuppare il pane raffermo nel latte e si lamenta come ogni mattina perché non vuole andare a scuola. Lui è quello che patisce di più la mancanza di mamma. Spesso lo vedo girovagare smarrito per le undici stanze della casa, cercando coi suoi grandi occhioni neri un sorriso che non c’è più. In quei casi lo prendo in braccio, lo metto accanto a me sulla panca del pianoforte e improvviso le musichette che gli piacciono tanto. Solo allora il suo sguardo si distende e abbozza un sorriso. Ma quella di suonare è un’abitudine che non ho quasi più: purtroppo la guerra ha tolto voce alla musica e allegria alla vita! Diversamente da mia sorella, non amo andare in orefi ceria ad aiutare le zie. Non ho un buon rapporto con una di loro, zia Gigina, che è una bisbetica e dominatrice. Un po’ come me, devo ammetterlo. Così, quando mio padre mi ha chiesto che intendessi fare per aiutare la famiglia, ho preferito andare a lavorare in una profumeria a piazza Municipio: sono impegnata una settimana di mattina e un’altra di pomeriggio, alternandomi con altre ragazze tutte di buona famiglia. Don Antonio, il proprietario, è un uomo in vista e il suo negozio ha una tradizione importante alle spalle che va tutelata, così la scelta del personale deve rispettare dei canoni precisi. Certo, con la guerra, le vendite sono diminuite. “Nei primi anni del fascismo – ci racconta don Antonio – si facevano grandi affari! Per le loro mogli gli uffi ciali acquistavano profumi, saponi, creme, smalti colorati…”. Per tanto tempo, dunque, l’attività è andata a gonfi e vele, ma oggi le cose sono cambiate e a comprare qualcosa sono rimaste solo le clienti abituali, tutte appartenenti alla buona borghesia napoletana. Per loro don Antonio continua a tenere i magazzini pieni di prodotti, la maggior parte dei quali ormai “invecchiati”, perché acquistati negli anni d’oro. A me piace lavorare in profumeria; mi piacciono gli odori che emanano i saponi, mi piace il colore variegato delle bottiglie, l’essenza di lavanda che pervade la stanza, le luci che spesso accendiamo anche di giorno, l’odore del bancone - posto quasi a ridosso della vetrina - che permea il legno scuro in una fusione di noce e lillà dal profumo antico. Mi piacciono soprattutto l’allegria e la complicità che si stabiliscono con la mia amica Marisa quando, per gioco, ci guardiamo nel grande specchio posto nella parete di fondo e ci facciamo le boccacce, lontano dagli occhi indagatori del principale. Siamo due persone agli antipodi io e Marisa, non solo fi sicamente. Lei ha occhi e capelli scuri, è magra e piccola di statura. Io sono alta un metro e settantatré e i miei occhi chiari e i capelli biondi mi fanno somigliare più a una nordica che a una napoletana “verace”, come sono e mi sento. Marisa è un vulcano di energia, parla sempre e non c’è un argomento che la trovi impreparata; ammicca sorridente alla contessa De Novelliis, quando viene in negozio, sperando in una benevolenza da parte sua e guarda di sottecchi il giovane garzone della pasticceria, quelle rare volte che don Antonio fa arrivare le paste. Io invece sono determinata e volitiva, non amo le smancerie, non sopporto le bizze delle vecchie signore che arrivano in profumeria come se avessero al seguito la corte reale e tronco sul nascere i complimenti insinuanti di giovani perditempo, più preoccupati di piacersi che di fare colpo su di me. Marisa dice che sono snob, io invece so di essere soltanto poco disponibile agli arzigogoli, agli inutili sofi smi e alle smancerie così in voga tra uomini e donne. Quando incontrerò il mio amore lo capirò subito, saprò riconoscerlo tra cento. E solo in quel caso sarò disponibile agli sguardi obliqui e al dolce fraseggiare. Allora chissà, forse riuscirò anche a porgere la mano con fare languido, come vedo fare tante volte a Marisa. Ieri mattina, prima del solito turno di lavoro in profumeria, ci siamo incontrate a piazza Municipio per una passeggiata. Era mezzogiorno quando ci ha avvicinato il giovane proprietario dello studio fotografi co, nostro dirimpettaio. Tra una chiacchiera e l’altra ci ha convinte a farci fotografare. “Siete troppo belle signurì! - ci ha detto - e quando si trova una cosa bella in questo periodo di brutture, non bisogna lasciarsela scappare. Fatevi fare due fotografi e, sono gratis per voi. Dopo che le ho sviluppate ve le porto in profumeria. Ve le stampo sulla carta di lusso e vi ci metto pure la data e il timbro del mio negozio. È il più famoso di Napoli, lo sapete no? Quando fi nirà questo schifo di guerra e voi diventerete famose per la vostra bellezza, vi ricorderete di Pinuccio Pesce… per servirvi!”. La nostra risata fragorosa ha travolto il grande fotografo che ci osservava sconcertato dall’ilarità provocata da quel cognome eccentrico, ostentato quasi fosse un titolo nobiliare. Cosicché nessuna delle due ha avuto il coraggio di deluderlo e ci siamo messe in posa concedendo al grande maestro Pinuccio Pesce di esprimere al meglio la sua arte. Tornando in profumeria non abbiamo fatto altro che ridere e scherzare delle pose che il “fotografo più famoso di Napoli” ci ha fatto assumere sullo sfondo del Maschio Angioino: col guanto, senza il cappello, con la borsetta in vista e le mani in tasca… tanto che non vediamo l’ora di avere le nostre fotografi e “d’autore”, per poterle commentare ulteriormente. Quando sono con Marisa dimentico le cose spiacevoli che mi stanno intorno: la guerra, la mancanza di mia madre, la solitudine di mio padre, gli occhi tristi di Ciro, l’incertezza del domani. Delle volte penso che questa amica così diversa da me sia un dono di Dio e che senza di lei e senza mio cugino Renato non ce l’avrei fatta a sostenere i cambiamenti della mia vita da quel 1932 che, con la morte di mamma, segna la fi ne della mia giovinezza. Con Marisa ritrovo gli slanci, l’allegria, la spensieratezza di un tempo. E con lei, solo con lei, mi capita di pensare al futuro e all’amore. Eppure anche Marisa ha i suoi lati ombrosi e le sue paure. Lei è terrorizzata dai bombardamenti. Quest’anno Napoli è stata martirizzata più degli anni scorsi; ad oggi ci sono già state quattro incursioni aeree. Per fortuna si è trattato di missioni strategiche, come le chiama mio padre, riservate ad obiettivi militari, infrastrutture, impianti industriali. Ma è stata colpita pure la zona del porto. E un anno fa, il 18 novembre, un bombardamento a piazza della Concordia ha distrutto un palazzo che è franato sopra un ricovero, facendo morire molta gente. Appena cominciano a suonare le sirene, se ci troviamo in profumeria, Marisa è la prima a scappare verso la botola del pavimento e scende di corsa lungo la scala a chiocciola che porta al nostro magazzino sotterraneo, dove don Antonio ha allestito un piccolo ricovero. È andata così anche il 27 novembre, quando c’è stata l’ultima incursione: al primo squillo di sirena non abbiamo fatto in tempo a imboccare la scaletta che già Marisa era giù, in un angolo del magazzino, tremante. Si stringeva convulsamente le mani e pregava senza fermarsi un attimo. Si è tranquillizzata solo quando è terminato il rumore delle bombe e abbiamo sentito la sirena del cessato pericolo. Mi meraviglio sempre a vederla in queste situazioni: indifesa, fragile, sembra persino più piccola del solito, la faccia tesa, gli occhi corrucciati dal terrore. In quel momento i nostri ruoli si invertono: io la conforto e la incito a non aver timore, parlo continuamente, smetto solo quando fi nisce l’emergenza e vedo la mia amica rilassarsi e sciogliere le mani annodate dalla paura. Tornando in superfi cie passa solo un minuto e Marisa riacquista la baldanza di sempre. La saracinesca viene rialzata, le luci riaccese e, mentre don Antonio si assenta per andare in bagno Marisa apre la bottiglia del suo profumo preferito, quello alla violetta, e se lo passa sui polsi e sul collo, respirando profondamente l’odore della vita. Oggi è il quattro dicembre, venerdì, fra soli quattro giorni si festeggia l’Immacolata Concezione, il mio onomastico. Mio padre non lascia mai passare inosservata questa ricorrenza, forse perché con me rinnova il ricordo di mia nonna, e io spero di avere in regalo quel pezzo di stoffa verde bosco, in lana morbida, che ho visto un mese fa nella vetrina dei Donetti. Sogno di farmi un cappotto nuovo e di passare questo grigio a mia sorella Giuseppina, che ormai è diventata alta quanto me. E poi, in negozio, c’è una bottiglia che mi guarda da anni, praticamente dal mio primo giorno di lavoro! Vorrei poterla aprire anche solo per aspirane il profumo... Don Antonio la conserva come una reliquia, in mostra sullo scaffale più in vista e la propone ogni volta alle clienti più importanti. Tante di loro hanno provato ad acquistarla, anche la contessa De Novelliis, ma il prezzo richiesto è troppo alto per questi tempi di guerra, così la bottiglia resta mestamente sulla mensola. E da quello scaffale mi guarda… Il profumo è Shalimar di Guerlain, una fragranza che sa di fiori di bergamotto e cipria, delicata ed avvolgente. Il flacone che lo contiene è bellissimo: chi lo ha disegnato si è ispirato ai famosi giardini di Shalimar col tappo a ventaglio che ricorda le acque zampillanti delle fontane situate in quello che doveva essere un vero “tempio dell’amore”. Il profumo, infatti, si ispira alla struggente storia d’amore tra un imperatore e una principessa indiana e simboleggia la loro promessa di eterna unione. Forse è per questo che vorrei poterlo indossare, perché anche a me piacerebbe vivere una struggente storia d’amore! Ma adesso basta con i vagheggiamenti, sono già le tre e mezza del pomeriggio e alle quattro Marisa mi aspetta per aprire la profumeria. Mi tocca allungare il passo. “Buon pomeriggio signorina Titina”, sento la voce del garzone della pasticceria e mi volto a salutarlo, distratta, mentre attraverso la strada e mi appresto a raggiungere Marisa, che sta già togliendosi cappotto e cappello e mi aspetta, con la porta aperta, sull’ingresso del negozio. “Oggi don Antonio non è puntuale… chissà magari si è addormentato e noi possiamo chiacchierare senza controllo per almeno un’ora prima che arrivi”, esclama Marisa con fare allegro. Provo a risponderle con una battuta, quando sentiamo il campanello della porta d’ingresso e vediamo entrare il principale, arruffato e infreddolito. “Ragazze preparatevi che fra un po’ arriva la Pignatelli con tutto lo stuolo”, esclama, e già sappiamo che sarà un pomeriggio intenso, tra saponi, lavande, creme sbiancanti per le mani, acqua di rose e profumi. Tanti prodotti da mostrare col sorriso sulle labbra, tanto vociare alternato tra la vecchia baronessa e le sue nipoti zitelle, poco denaro sapientemente contato fi no all’ultimo centesimo dalla vecchia zia esausta e inebetita dopo ore e ore di essenze inspirate. Eccole, puntuali, zia e nipoti entrano con fare sussiegoso e prendono posto, con il solito rituale, all’interno della stanza. Marisa si avvia, riverente, verso la vecchia baronessa mentre io mi avvicino alle nipoti che, come sempre, mi scrutano, un po’ seccate dalla mia altezza che le costringe ad alzare lo sguardo quando preferirebbero guardarmi loro dall’alto in basso. “Signorina Rosa venite con me - esclamo rivolta alla più giovane delle due - vi faccio sentire la nuova fragranza di questo sapone che è in grado di sostituire anche un profumo, tanto è persistente il suo odore”. Insieme ci avviamo verso lo scaffale più interno del negozio, quello accanto alla botola del magazzino. Sono poco più delle quattro e mezza del pomeriggio, lo so perché guardo di sfuggita il mio orologio da polso mentre alzo la manica dell’abito verde a fiori per prendere i saponi dalla cassetta. Ed è l’attimo prima dell’apocalisse. D’un tratto un rumore acuto e potente squarcia l’aria, tutto si rabbuia, il cielo si scuote e tutto trema, fischi e boati assordanti irrompono nell’aria, le bottiglie suonano rompendosi e i vetri scoppiano. Penso: “Non può essere un bombardamento, non è suonata la sirena dell’allarme!”. Sento le urla di Marisa, le zitelle, la baronessa, mi sembra di sentire l’affanno di don Antonio. Tutto si consuma in un minuto. Avverto il mio corpo che si solleva, trasportato dall’aria, come una farfalla, in fondo, in fondo… sempre di più! “Mamma mia, aiutami, che sta succedendo? È un sogno?”. Una forza mi trascina contro la mia volontà: “Sto morendo? Dove sto andando?”. Il fragore delle bottiglie cadute intona la musica di un’orchestra impazzita. Anche la bottiglia di Shalimar sarà caduta, mi sembra di sentirne il profumo. O forse è il profumo di mia madre? Atterro nel posto più lontano del magazzino sotterraneo. Prima di chiudere gli occhi mi sembra di vedere tutti gli scaffali venirmi incontro minacciosi. Poi il buio, profondo, nero, intenso, implacabile, mi avvolge e non mi dà scampo.