Da tempo avevo in mente ed in cantiere… di costruire una mia storia degli ebrei modenesi. Forse perché io sono e mi sento modenese nel profondo e ho sempre pensato che gli ebrei che hanno abitato la mia città abbiano contribuito in maniera importante alla sua crescita, al suo essere, insomma, quella che è.
Il libro si chiude con una testimonianza che ritengo eccezionale: il racconto, inedito fino ad oggi, di Bruna Osima, appartenente ad un’importante famiglia israelita molto nota in città.
Considero un vero privilegio aver potuto arricchire la mia raccolta - dove spesso è la fantasia a prevalere sui fatti pur sempre inseriti in un contesto storico che mi auguro ineccepibile - con queste pagine scarne ma colme di pathos. l’autore
La Bratta Zala
Nevicava fitto la vigilia di quel Natale del 1509. Aveva iniziato la sera prima e continuato tutta la mattina. Il gruppo era esausto. I bambini per un po’ si erano divertiti a catturare con le mani i fiocchi per poi rendersi presto conto che camminare nella neve fresca, affondandoci fino alle cosce, era estenuante. Dodici persone intirizzite ed esauste: un vecchio, due giovani uomini, tre donne e sei bambini. Ed un carretto tirato da un asino che avevano comprato a caro prezzo sulla strada tortuosa che da Urbino porta verso il regno dei Signori di Rimini. Era stato un viaggio interminabile. Avevano lasciato Sefarad anni prima... sembrava una vita... Cacciati dai re che avrebbero amato e riverito se solo avessero concesso loro l’occasione di dimostrarsi bravi sudditi. Proprio come avevano fatto coi Mori. Gli emiri avevano governato bene l’Andalusia lasciando che anche i loro sudditi giudei vivessero in pace e prosperassero. Poi, quando i re cattolici Ferdinando ed Isabella avevano, dopo una guerra difficile e crudele, cacciato gli arabi dalla Spagna, un editto aveva espulso dal paese anche loro, gli ebrei andalusi. Dal paese dove avevano messo radici. Cacciati dalla Spagna e poi dal Portogallo, dalla Sicilia, da Napoli... Cacciati ancora una volta. Nella memoria di Samuele, che alla vigilia di quel Natale del 1509, guidava quel gruppetto intirizzito verso Modena, quella data, 1492, sarebbe rimasta per sempre una ferita aperta. Fosse stato più giovane e senza famiglia avrebbe preferito imbarcarsi con quel comandante italiano, quel Cristobal Colon che si diceva nascondesse le sue origini ebree e che era arrivato in India sfidando le onde del Mare Oceano... Quanti ebrei erano fuggiti dalla Spagna in mille direzioni diverse? Cento, duecentomila? Imbarcati a caro prezzo su qualsiasi legno lasciasse il paese, stipati in sottocoperte puzzolenti e buie. La sua famiglia in fondo era stata fortunata. A Genova, un rabbino di Cadice gli aveva parlato di una lettera che il duca estense Ercole I, Signore di Modena, aveva scritto al suo agente in Liguria, Corrado Stanga, in cui si diceva felice di aprire le porte della città a “quelle famiglie de iudei che sono capitati lì a Genova venute da le parte de Spagna...” Un invito allettante. Prima di decidere però, Samuele aveva voluto valutare altre soluzioni. Per mare da Genova erano andati a Livorno dove gli ebrei sefarditi, cacciati dai regni dei cattolicissimi monarchi spagnoli, erano già tanti... troppi. Poi, da Livorno avevano raggiunto, faticosamente, traversando i monti Appennini, Ancona e di lì Urbino dove i duchi da Montefeltro da sempre avevano dato accoglienza agli ebrei. Urbino era ricca e splendida anche se piccola ed il duca tanto ben disposto nei confronti dei giudei da servirsene come consiglieri di corte. A Samuele però qualcosa diceva dentro che c’era Modena nel suo destino. Un confratello di Urbino, un tedesco fuggito da Lipsia qualche anno prima per salvarsi dall’ennesima persecuzione, gli aveva raccontato come già tanti ebrei spagnoli avessero trovato accoglienza nei possedimenti estensi: chi a Ferrara, chi a Finale, chi a Modena. “Chissà com’è questa Modena”, si chiedeva spesso Samuele. Agli altri del gruppo aveva riferito quanto era riuscito, col suo italiano stentato, ad apprendere parlando con altri giudei o coi cristiani con cui, di tanto in tanto, aveva dovuto trattare. C’era una chiesa bellissima a Modena, tutta bianca di antichi marmi ed una torre campanaria costruita a fianco...
Arrivarono alla porta della città che dava verso Bologna intorno alle prime ore del pomeriggio. Videro le mura massicce e si fermarono all’altolà delle guardie armate. La neve continuava a cadere sempre più fitta. Guardando oltre le spalle delle guardie, Samuele intravide case basse e portici ai lati di una strada dritta che portava verso il centro della città. Tanti camini fumavano. Nel freddo, sentì il calore di chi è felice di arrivare. Le guardie sembravano aver fretta di sbarazzarsi del gruppo e tornare al caldo, alle carte e ad una brocca di vino. Samuele spiegò, raccontò, pregò aiutando il suo italiano con parole spagnole, ebraiche, arabe. Una delle guardie salì sul carro ed esaminò i fagotti dei viandanti. Vedendo i libri sacri avvolti con cura nei tallit, gli scialli di preghiera, gridò ai compagni: “Giudei... Altri giudei!” Un’altra guardia scrutò uno per uno i componenti il gruppo. Sembrava interessato soprattutto alle tre giovani donne che nel frattempo si erano scrollate dai mantelli la neve. “Hanno tutte denti bellissimi e pelle color dell’ambra”, disse con un sorriso ammiccante al compagno più vicino. “C’è una tassa da pagare per entrare in città e un’altra per il carro e per l’asino”, tagliò corto la guardia più anziana. “Più due soldi per il litro di vino per chi sta sotto la neve anche la vigilia di Natale”, aggiunse ridendo la guardia più giovane. “Dove vivono qui i giudei?”, chiese Samuele porgendo le monete al più anziano. “Poco dopo il Duomo, alla sua sinistra, in Rua del Muro... Riconoscerete il luogo perché ci sono insegne scritte nella vostra lingua. Se vi perdete, chiedete, qualcuno vi guiderà”.
Aveva smesso di nevicare e stava lentamente scendendo la sera. Le strade erano deserte. Solo davanti alle chiese c’era animazione. Il fatto che fosse la vigilia di Natale impensieriva non poco Samuele. Sapeva per esperienza che chi non amava gli ebrei tendeva a ricordarlo soprattutto in prossimità delle feste cristiane: a Natale, appunto, e a Pasqua. In città il loro passo si fece più spedito. Qualcuno aveva spalato dalle strade la neve. Il gruppo passò di fianco al Duomo e ne ammirò il biancore e la sobrietà delle forme. “Com’è diverso dai palazzi andalusi”, pensò Samuele. Non videro però la torre campanaria: una foschia densa l’avvolgeva poco sopra il tetto del Duomo. Ad un uomo che uscì barcollando da una bettola chiesero indicazioni per la Rua del Muro. Pochi passi e l’imboccarono. Ora il freddo era ancora più pungente e ripararsi sotto il portico della strada dette loro un senso di ristoro. Samuele sentì una strana commozione che evidentemente anche gli altri percepivano visto che li udì ridacchiare nervosamente sottovoce. “Arrivati, finalmente... siamo giunti alla meta!”, sussurrò. Uno degli uomini stese una coperta sul dorso del somaro e rimase a guardia del carretto con le loro povere cose. Il gruppo seguì Samuele dentro l’androne buio di un palazzo piuttosto alto, fino ad un cortile interno quadrato. Samuele gridò verso l’alto prima nella lingua dei padri e poi in spagnolo: “Abitano spagnoli qui?” Silenzio. Ripeté la domanda e dal buio giunse la voce di un uomo: “Shalom! Da quale città venite?” Samuele sentì lacrime di gioia riempirgli gli occhi. “Siviglia!”, gridò, questa volta senza timori. “Io sono Aronne e vengo da Granada, ma ci sono altri fratelli che sono arrivati da poco dalla Navarra e molti altri, ci dicono, stanno arrivando qui da tutta la Spagna... Aspettate un attimo: il tempo di prendere un lume e la chiave dell’oratorio e scendo”. Passarono minuti che parvero eterni tanta era la curiosità mista a felicità che si impadronì del gruppo. Samuele si tolse il mantello per apparire meno goffo e quando Aronne apparve da una porticina del cortile gli andò incontro e lo strinse in un lungo abbraccio. Aronne salutò gli altri chinando lentamente la testa poi invitò tutti a seguirlo fino all’oratorio che distava pochi passi dalla sua casa. Entrarono in una stanza che fungeva da ingresso ad un’altra dove, riferì Aronne, si pregava il Signore secondo il rito spagnolo e dove era contenuto l’Aron, il sacro armadio che custodiva i Rotoli della Legge, il Sefer Torah. “Tutto proprio come a casa... In Spagna!”, sottolineò Aronne con orgoglio. Il gruppo si sistemò in cerchio intorno ad un grande tavolo e mangiò con appetito il cibo che nel frattempo la moglie di Aronne ed altre donne avevano portato. I giovani del gruppo, rinvigoriti, in pochi minuti avevano sistemato e governato il somaro in una stalla indicata da Aronne e portato il bagaglio all’oratorio. Anche se non riscaldata, la stanza era accogliente con le sue pareti bianche e le scritte in ebraico che davano all’ambiente un che di protettivo. “E’ quasi come essere a casa”, commentò Samuele. Le donne tirarono una corda cui appesero delle coperte per separarsi dagli uomini ed il gruppo si sistemò per la notte. Aronne, andandosene, lasciò qualche candela a Samuele e si raccomandò di chiudere bene a chiave il portone dell’oratorio. “Non aprite a nessuno!” ribadì. Tra qualche colpo di tosse il gruppo prese sonno. Al caldo delle coperte, Samuele ringraziò l’Onnipotente e sentì la gioia di aver portato in un luogo che sembrava amico la sua famiglia. Non si svegliò neppure quando le campane delle molte chiese annunziarono, alla mezzanotte, la nascita del loro Messia.
Alle prime luci del mattino, Aronne entrò nella stanza e, silenziosamente, scosse Samuele fino a svegliarlo. “Mi avevi detto di chiamarti presto”, bisbigliò. Samuele si vestì in fretta, recitando il Shemà Israel che il Signore si aspettava ogni giorno da lui. Lasciando in punta di piedi l’oratorio per non svegliare gli altri ancora addormentati, Aronne gli porse un copricapo giallo. “Vogliono che tutti noi giudei lo si porti per distinguerci dagli altri”, spiegò scendendo gli stretti gradini. Uscirono all’aperto. Era una giornata splendida, l’aria era tersa e la neve brillava al sole mattutino. “I modenesi la chiamano la Bratta Zala, il berretto giallo, ma in fondo è poca cosa rispetto a quello che ci siamo lasciati alle spalle... Il Duca ci è amico, si dice addirittura che ci voglia bene... ci concede molti mestieri...” “Quali?”, domandò Samuele con un filo di ansietà. “Il prestito a pegno, che i cristiani non possono concedere, e poi commerci: di panni usati, tessuti, granaglie...” “E i modenesi come sono?” “Schietti, laboriosi, tolleranti...” Camminando erano arrivati in prossimità del Duomo. Il biancore del suo marmo al sole abbagliava. Aronne si accorse che lo sguardo di Samuele era fisso sulla torre campanaria che si arrampicava snella verso l’azzurro del cielo. “È bella la torre e altissima: 90 metri!”, commentò con ammirazione Aronne. Samuele sembrava catturato dalla visione. Rimase un minuto in silenzio poi quasi gridò: “Sembra la nostra cara Giralda, la più bella torre di Siviglia... sento che staremo bene qui... a Modena! C’è’ perfino una... Giraldina!” Le sue parole arrivarono a due uomini che, intabarrati, sostavano all’angolo della piazza. Con lo sguardo li seguirono svoltare per via Cervetta, verso il quartiere dei giudei. “Cum ‘han-i ciamee la tarr i brat zal?”, chiese il primo. “Ghirlanda... Ghirlandina... L’è al namm giost. A-m pies... D’ora in avanti, ancha me a la ciamarò acsè: Ghirlandeina!”