Un’analisi può dirsi finita, interrotta, interminabile. La mia la interruppi nei primi anni Settanta, mosso dal desiderio di ritornare in Italia. Mi mancava la mia lingua madre. Quando ripresi a parlarla, lasciando alle spalle il francese, mi sentii rigenerato. Ero ebbro di una felicità ritrovata. Si poneva però il problema d’intraprendere un’altra analisi in Italia, ma non ne ebbi la forza e, forse, l’umiltà. Era difficile sostituire Lacan. Ma ogni nostra scelta ha delle conseguenze, talora positive, talora negative. “Sul divano con Luca” può dirsi un effetto positivo, una sorta di “sinthomo” con cui ho convissuto per anni.
Un’infaticabile scrittura imbastita attorno a quattro gialli che io preferisco chiamare “resoconti ocra” o meglio ancora “conti resi” dal colore incerto: Luca Anselmi, un immaginario detective, ha preso il mio posto nella ricerca della verità, sia all’interno di un’analisi con il dottor Liverani, sia all’esterno, cercando di approdare a una soluzione investigativa che lo coinvolge visceralmente. Il dentro e il fuori s’intrecciano formando una “banda di Moebius”, un nastro, percorrendo il quale non c’è separazione tra l’interno e l’esterno.
Quando sono ottimista penso che tutte le analisi dovrebbero interrompersi, se il frutto è questo. Quando sono pessimista ho l’impressione di aver prodotto una “réchérche” il cui unico merito è di avermi fatto compagnia per un quarto di secolo. Un “sinthomo”, come dicevo, su cui ha insistito Lacan nell’ultima fase del suo insegnamento, rileggendo e reinterpretando James Joyce.
In fondo, gli sono sempre rimasto fedele.