Sono molte migliaia i bambini che nascono ogni anno da utero in affitto: più di 2 mila solo negli Stati Uniti, con un incremento annuo del 200 per cento. Un business colossale e planetario in espansione costante – oggi il fatturato supera i 3 miliardi – nel quale le donne diventano mezzi di produzione e le creature umane oggetti in vendita. Quei figli che non ci è consentito di avere possiamo sempre comprarli. Basta pagare. La riproduzione diventa produzione di cui siamo a un tempo mezzi e destinatari. Un consumismo che si spinge fino all’autoconsumismo, confezionato in forma di neo-desideri e neo-diritti che rivendicano di poter prescindere anche dalla biologia dei corpi e dalla differenza sessuale. Chi è una madre “surrogata”, se non una madre? Perché si pretende che scompaia dopo aver portato a termine il suo biolavoro? Si può affittare il proprio corpo e mettere in vendita un essere umano? Domande urgenti, alla vigilia di un dibattito che lacererà l’Europa, ultima roccaforte anti-surrogacy. Un pamphlet “anarchico” e necessario di fronte alla portata della posta in gioco: i bambini e la differenza femminile, garanzia di civiltà e umanità.
Primo capitoloSul “valore sociale” della maternità c’è ancora da discutere. Sul suo valore economico non ci sono più dubbi: dai 120-150 mila dollari all inclusive della California – la gestante premium costa un po’ di più – ai 20-30 mila per una docile surrogata indiana.
Il mercato è fatto così: ne fa sempre una questione di soldi, riconduce tutto alla misura universale del denaro. I tariffari dell’utero in affitto possono dare un’idea di quanto vale oggi una maternità.
Ogni anno nascono via utero in affitto o gestazione per altri (GPA) svariate migliaia di bambini: almeno 2 mila solo negli Stati Uniti, con un incremento annuo del 200 per cento (fonte: American Society for Reproductive Medicine).
Mancano numeri globali attendibili, anche per la reticenza degli operatori del settore. In India le oltre 3 mila cliniche produrrebbero 1500 surrogazioni l’anno. Nel 2011 in Ucraina sarebbero state portate a termine 120 gravidanze, ma il numero reale potrebbe essere molto più alto. Cento bambini italiani nascerebbero ogni anno grazie a utero in affitto (fonte: La Stampa).
Quello che è certo, si tratta di un giro d’affari colossale, almeno 3 miliardi di dollari – dato sottostimato, secondo alcuni – che arrivano a 10 se si considera il business della fecondazione assistita nel suo complesso. Un mercato molto promettente: si guarda all’Africa come potenziale paradiso low cost per le tecnologie riproduttive.
Il boom ha superato ogni previsione, mettendo in crisi anche i “possibilisti” come Carmel Shalev, giurista israeliana, tra le prime a sostenere la surrogacy già alla fine degli anni ’80 come mezzo di liberazione dalla “tirannia della procreazione”. Oggi perfino Shalev deve convenire sul fatto che la maternità per contratto ha dato luogo a un esteso mercato dei bambini in cui le donne non si liberano affatto e non sono altro che mezzi di produzione. E ammette che la crescente domanda di accesso alle tecnologie riproduttive “riflette una cultura consumistica” (“The global trade in reproduction”, BioEdge, 20 settembre 2014).
Nei paesi occidentali la domanda di utero in affitto – e più in generale di fecondazione assistita – cresce in proporzione al drammatico calo di fecondità, che come vedremo può essere ricondotto a molte cause.
Una delle principali ragioni di infertilità è senz’altro il fatto che i figli vengono “cercati” sempre più tardi. In media le nostre madri ci hanno messo al mondo a 25 anni – le nostre nonne hanno partorito anche molto prima. Oggi è abituale provarci ben dopo i 30 (in Italia l’età media del primo parto è 31,6 anni, contro i 28,7 europei: ma deteniamo anche il primato delle primipare quarantenni).
Come dice la teologa femminista Mary Daly, ormai da oltre un ventennio “la libertà riproduttiva delle donne è repressa ovunque”. Rispetto al resto d’Occidente da noi è repressa un po’ di più: siamo a 1,29 figli per donna, tra i paesi meno prolifici al mondo. Per carenza di servizi, per mancanza o incertezza del lavoro, per instabilità di vita, per tutti i problemi che sappiamo. C’è anche e soprattutto la tenace resistenza di un simbolico che al “doppio sì” – sì alla maternità, sì al lavoro: unico vero incentivo alla natalità – qui più che altrove continua a opporre l’alternativa tra produzione e riproduzione.
Ma là dove il mercato crea problemi, il mercato trova anche profittevoli rimedi. La magia del capitalismo sta proprio nella sua capacità di re-inglobare qualunque criticità per farne opportunità di profitto. Quello che ti viene tolto – la libertà di fare i figli quando c’è il desiderio e il corpo è naturalmente fecondo – ti viene riproposto confezionato in forma di neo-desideri e neo-diritti: diritto a un bambino anche quando non arriva, diritto alla “genitorialità”, diritto a riprodursi senza contatti con l’altro sesso. Basta che paghi.
Il mercato neoliberista si prende le sementi e ce le rivende, si prende l’acqua e ce la rivende, si prende anche i nostri corpi e ce li rivende, trasformandoci in consumatori di noi stessi.
I figli che non ci è stato consentito avere possiamo comprarli. Anzi: se li compriamo è meglio. La riproduzione diventa produzione di cui siamo a un tempo mezzi e destinatari. È “la biologia che viene sottomessa e piegata al capitalismo delle corporation” (Nancy Frazer a Francesca De Benedetti, “Modaiolo e neoliberista, il femminismo ci ha tradite”, la Repubblica, 31 marzo 2015).
Ci accontentiamo di esercitare quello che Alexander Langer chiamava “il piccolo potere del consumatore” e non lottiamo per la nostra piena umanità, che comprende la possibilità di fare bambini nel tempo giusto, o perfino di lasciarli venire quando vogliono. Ci limitiamo a rivendicare il “diritto” di accesso libero ed eguale alle opportunità biotech.
Le battaglie antiliberiste e per un consumo critico si fermano imbarazzate sulla soglia dell’utero in affitto e della fecondazione medicalmente assistita: se sei contro gli OGM stai lottando per l’ambiente e la biodiversità, per salvaguardare la sopravvivenza delle specie e dell’intero ecosistema dall’onnivoracità del profitto e dei desideri indotti nei singoli. Ma se chiedi uno stop alla GPA sei un conservatore, preferibilmente omofobico.
Si deve lottare molto, specie con una parte consistente dell’opinione pubblica “progressista”, perché la resistenza all’utero in affitto possa essere intesa come difesa di un principio di civiltà e di umanità, di rispetto dei corpi e della loro dignità.
Il neoliberismo ha digerito e brandizzato anche la lotta delle donne per l’autodeterminazione e il controllo della fecondità, trasformandola in pratiche market friendly e in occasione per fare soldi.
C’era stato bisogno di uno strappo deciso, per liberarsi della maternità come destino e per poter significare liberamente la propria esistenza: da Simone De Beauvoir a Shulamith Firestone, per cui la maternità costituisce “l’ineguaglianza fondamentale”, fino a Élisabeth Badinter, che vede nel bambino “il miglior alleato della dominazione maschile”.
Lia Cigarini, fondatrice della Libreria delle donne di Milano, ricorda “il fortissimo desiderio che si manifestava nella prima autocoscienza di sradicare la donna dalla madre, di toglierla da quel posto che le era stato assegnato nell’ordine simbolico patriarcale”.
Ed ecco pronta la soluzione e il suo marketing. Puoi comprare, ma anche venderti: il corpo è tuo, l’utero è tuo, puoi metterli liberamente sul mercato, c’è un – modesto – guadagno anche per te. Un consumismo che si spinge fino all’auto-consumismo.
La questione dell’utero in affitto dimostra plasticamente come il neoliberismo sappia metabolizzare ogni alternativa critica e farne un prodotto. Ma dimostra anche che la relazione tra la madre e la creatura è il punto davanti al quale il mercato sarebbe costretto a fermarsi, a meno di separare l’una dall’altra. Che le relazioni, a partire da quella relazione primaria, costituiscono il vero argine all’onnipotenza del mercato nelle nostre vite.
Le relazioni sono il vero nemico del consumismo e del mercato. Possiamo essere ricchi di tutto il resto, ma la crescente povertà di relazioni ci fa sentire deprivati e infelici, e il mercato sa che non può farci niente. Viviamo nel Terzo Mondo delle relazioni. Un figlio, quell’unico, prezioso figlio, si cerca disperatamente anche per questo.
Dice Lia Cigarini che, “se salta la relazione materna, la neutralizzazione della differenza sessuale è avvenuta”. È la definitiva “scomparsa delle donne” – avevo dato questo titolo a un mio libro del 2007, ma non immaginavo che le cose sarebbero andate così in fretta.
Ancora Cigarini: “Oggi la consapevolezza di questo rischio è più diffusa: possono nascere di qui una parola e una pratica politica?”.
Di fronte alla possibilità del definitivo slegame dalla differenza sessuale, qual è la strategia, dov’è l’azione efficace?
C’è di buono che in questa furente discussione sull’utero in affitto si misura – forse come mai prima d’ora – un diffuso bisogno di ascoltare quello hanno da dire le donne. La loro competenza in fatto di origine e di relazioni viene riconosciuta e interpellata, come se il contributo neutro della bioetica non bastasse.
Chiedendo alle donne e mettendosi in ascolto delle loro parole, anche i media mainstream riconoscono la politicità della coscienza materna e rappresentano la preoccupazione per i rischi che si correrebbero se si arrivasse a cancellare la madre per legge.
Non va così da sempre: appena una ventina d’anni fa Franca Pizzini e Lia Lombardi (Madre provetta) segnalavano che “sulla procreazione artificiale o, come si dice, medicalmente assistita, le donne non hanno voce e quando prendono la parola non vengono ascoltate. Il loro pensiero compare poco nei mezzi di comunicazione di massa maggiormente seguiti dalla popolazione italiana”.
Oggi si riconosce invece che quello che molte donne stanno dicendo sull’utero in affitto lo stanno dicendo per il bene di tutti. Che quel tenere sempre al centro la relazione è per la felicità di tutti.
“Abbiamo attraversato un’epoca storica nella quale il soggetto di riferimento del femminismo è passato da un noi che significava le donne a un noi che significa l’umano” dice Carol Gilligan, psicoanalista americana della differenza (La virtù della resistenza).
Ragiono sull’utero in affitto da molti anni e provo a dare anch’io il mio contributo.
P.S. L’andamento del libro è necessariamente magmatico e tumultuoso: ci troviamo nel bel mezzo del grande disordine simbolico prodotto dal mercato delle pratiche procreative, e ogni sistematicità nella trattazione a mio parere sarebbe fittizia.