Giulia Damonte giovane avvocato di Genova si separa dal marito e insieme alla figlia quindicenne riprende in mano la sua vita più forte di prima. Un giorno un amico giudice le propone un fine settimana a Marsiglia in occasione di un'importante regata. È la città che lei voleva visitare, ma non aveva mai trovato il momento giusto per farlo. A Marsiglia infatti il suo bisnonno era molto legato. E proprio nell'imponente Basilica di Notre Dame de la Garde, Giulia vede un piccolo quadro, un ex voto. Quel quadro potrebbe segnare la sua vita per sempre.
Primo capitolo1
Il vento alzava le onde rovesciandole violente contro gli scogli e un getto di schizzi pungenti le inondava il viso e la cerata gialla gocciolando nelle scarpe leggere ormai zuppe, ma lei non si muoveva. Fissava il mare in burrasca sopra il quale nubi gonfie di pioggia nascondevano il cielo, e più il suo sguardo si perdeva in quella massa d’acqua in tempesta più lei si convinceva di quanto quel tumulto di cavalloni fosse uguale alla sua vita, o meglio, a quello che era diventata la sua vita negli ultimi mesi.
Lo squillo del cellulare la fece sussultare, ma prima di rispondere diede, come d’abitudine, un’occhiata al display per controllare chi la stesse cercando.
«Sì?» disse rassegnata.
«Ma dove sei finita?Hai detto che saresti rientrata presto, e poi sta diluviando. Ah, senti, ti sei ricordata di una chiavetta Usb?»
«L’ho cercata in studio, ma non ne ho più di nuove, domani ne comprerai una; sto arrivando, ciao.» Chiuse la comunicazione per evitare sicure proteste seguite da altre domande.
Se fosse stato solo qualche mese prima, quando ancora era nell’altro studio, sarebbe bastato chiamare Mirella e domandarle:
«Ho bisogno di una chiavetta, riesce a procurarmela?» e la segretaria più efficiente che avesse mai incontrato avrebbe fatto capolino nella stanza dopo pochi minuti: «Eccola avvocato, se non ha bisogno d’altro io andrei.»
«Nulla, grazie, ci vediamo domani.»
Ma Giulia si era chiusa alle spalle l’elegante porta d’ingresso in ebano macassara sulla quale spiccava, perfettamente lucidata, una targa in ottone con inciso: Studio Notarile Dott. Alfonso Aicardi e uno spazio sotto: Studio Legale Avv. Enzo Aicardi – Avv. Giulia Damonte. E sebbene quella decisione le fosse costata carissima, in tutti i sensi, lasciandole una sensazione di vuoto e di amarezza infiniti, di certo non sarebbe mai tornata sui suoi passi e tantomeno avrebbe modificato le successive scelte che, conseguenti a quel gesto, doveva inevitabilmente affrontare; un po’ come quando al supermercato tocchi la lattina sbagliata e vedi le altre rotolare sul pavimento senza che tu possa fare nulla se non guardarle in preda all’imbarazzo.
Lei, secondo i diversi punti di vista, aveva aperto una porta in un momento decisamente sbagliato o, come invece le aveva assicurato sua madre: «Tesoro, ringrazia il Cielo per il tempismo perfetto che hai avuto!»
La telefonata l’aveva distratta dai suoi pensieri, un ultimo respiro intriso di mare e poi era salita in macchina e aveva ripreso la strada verso casa.
Entrando si era trovata davanti gli scatoloni accumulati in ordine contro le pareti e pronti per essere portati via.
Una testa dai lunghi e lisci capelli castani si affacciò dalla porta della cucina:
«Cielo, mamma! Ma cosa ti è successo? Sei finita in acqua» le domandò sua figlia andando avanti a morsicare, senza scomporsi, una fetta di pane tostato imburrata e spolverata di erbe aromatiche, il suo spuntino preferito sin da quando era piccola.
«Molto spiritosa, mi spiace deluderti, ma mi sono soltanto fermata un momento a Boccadasse.»
«Ho capito, sei stata nel tuo angolo segreto, nell’unico punto di tutta Genova in cui puoi stare sola con il tuo mare, come ripeti ogni volta che sparisci e non si sa dove tu sia finita, però guarda che stai allagando il pavimento.» Giulia abbassò lo sguardo sulle piastrelle in graniglia colorata, tipiche di molte case liguri, che definivano un disegno a tappeto nell’ingresso e proseguivano poi nelle altre stanze perdendosi in un gioco di bordure sui toni del rosso, dell’avorio e del giallo. Involontariamente il suo pensiero era tornato alla prima volta che aveva visto quell’appartamento, sedici anni addietro.
Era giugno e mancavano solo tre mesi al suo matrimonio con il giovane e brillante avvocato Enzo Aicardi. Ultimo discendente di una rigida famiglia di notai, aveva messo fine a questa tradizione portata avanti, fino ad allora, come una sorta di missione dalla quale non era pensabile esimersi. Ad aiutarlo nella stoica decisione forse erano stati anche i diversi tentativi falliti al concorso per l’esame da notariato oltre alla sua convinzione che le gite in barca a vela e le partite di tennis fossero altrettanto importanti per l’acquisizione di clienti. E che un titolo di avvocato sarebbe bastato; anzi, avrebbe completato questa innovativa strategia di gestione dello studio.
Avevano raggiunto l’ultimo piano di un vecchio stabile, completamente ristrutturato, da soli, perché il titolare dell’agenzia immobiliare alla quale si erano affidati, amico da sempre di Enzo, non aveva potuto accompagnarli, ma conoscendo la loro pressante ricerca li aveva muniti di un indirizzo e di un mazzo di chiavi aggiungendo: «Questa è un’opportunità che potrebbe interessarvi e, se conosco il mio lavoro, resterà ben poco sul mercato. I proprietari hanno già traslocato perché vogliono sistemarsi prima che nasca il quarto figlio e i locali sono liberi.»
«E perché mai dovrebbe sparire così velocemente?» aveva domandato Enzo con un lieve tono di sufficienza.
«Andate a vederlo.» E la conversazione era finita lì.
Aprendo le portafinestre di ogni stanza videro davanti a loro i tetti della città. Un lungo terrazzo, non molto largo, correva tutt’intorno all’appartamento dando l’impressione di trovarsi sospesi fra il cielo rosato del tramonto che annegava in mare i suoi raggi infuocati e le diverse varietà di fiori che traboccavano dai vasi sistemati lungo tutta la ringhiera di protezione.
Giulia era euforica: abituata da sempre a spazi ariosi e luminosi avrebbe faticato ad adattarsi a uno di quegli edifici severi e un po’ cupi che fino ad allora le erano stati proposti.
Aveva abbracciato Enzo, lo aveva baciato, si erano stretti uno all’altra scivolando per terra e, incuranti del portoncino d’ingresso appena socchiuso, della scomodità del pavimento e del mondo fuori dalle finestre avevano fatto l’amore.
«Mamma scusa, ma con quest’idea da schifo che avete avuto tu e papà di vendere la casa, mi dici come faccio con la scuola e con le mie amiche? Non potevamo starci almeno io e te, o non poteva tenerla papà? Andare a vivere fuori Genova, e per giunta dai nonni, è un vero incubo.»
«Margherita, ti prego, ne abbiamo già parlato un sacco di volte e non ho intenzione di ricominciare da capo: né io né tuo padre desideriamo continuare ad abitare qui. Per quanto riguarda gli spostamenti ti ho già detto che in macchina con me o con i nonni, in autobus o in treno, ti puoi muovere benissimo. Io e tua zia Delfina siamo arrivate alla laurea, avevamo un sacco di amici e non abbiamo mai avuto problemi. Per finire, e con questo chiudiamo definitivamente l’argomento, andiamo ad abitare nel villino dei custodi, non nella casa grande insieme a tutti i nonni.»
«Ancora peggio.»
«Be’, se preferisci, puoi sempre occupare quella che era la mia stanza da ragazza e restare insieme a loro.»
«Qualsiasi alternativa è semplicemente pietosa, non bastava che rovinaste le vostre, avete distrutto anche la mia, di vita.»
«Marghe, non era certo mia intenzione distruggere la vita di nessuno, ma sai quello che è successo e penso tu sia abbastanza grande per capire e per renderti conto che ora tutto è cambiato. Lo dico anche per me, non credere, ma sono certa che ce la faremo alla grande. Ti va per cena una fetta di cima con un’insalata? Non abbiamo altro, domani c’è il trasloco.»
«Non ho più fame.»
«La metto in tavola lo stesso nel caso ti tornasse qualche avvisaglia di appetito.»
Il furgoncino rosso con la scritta blu Traslochi Veloci si era fermato davanti alla piccola costruzione in mattoni e pietra che si trovava alla sinistra del viale subito dopo la cancellata in ferro battuto.
Sia Giulia che Enzo, per motivi diversi, volevano lasciarsi il passato alle spalle, nessun ricordo che li riportasse indietro a quando ancora lo stare insieme era, per entrambi, un piacere oltre che un reciproco, intenso desiderio. Così l’appartamento era stato venduto arredato.
«Signora, dove mettiamo la roba?»
«Lasciate pure qui in soggiorno poi sistemerò io, fate attenzione però alle scatole contrassegnate con la “F”, mi raccomando, sono delicatissime.»
«Allora gliele mettiamo in quell’angolo, è meglio.»
«D’accordo, grazie.»
A parte gli abiti suoi e di sua figlia, una jacaranda mimosifoglia che le aveva regalato sua sorella ed era diventata davvero splendida, un banano e una yuca ai quali non avrebbe rinunciato, Giulia si era ripresa solo due servizi di piatti e uno da caffè, dei libri e poche altre cose. Anche se non più completi, e con qualche sbeccatura sui bordi, avevano per lei un valore immenso. Non dipendeva dal fatto che fossero stati prodotti dalla Richard-Ginori, che avessero colori delicati o che stessero bene con qualsiasi tipo di arredamento dal più classico al più moderno, in campagna o al mare, per una ricorrenza importante o una semplice cena fra amici, quei piatti, certamente insieme ad altri, erano stati acquistati dai suoi bisnonni Giovanni e Serafina Damonte quando la villa, finalmente ultimata dopo tre anni di lavori, li aveva accolti nel 1882.
Per le sue nozze, Giulia aveva chiesto di poter avere qualcosa dalla casa dove era nata e aveva vissuto da sempre. L’unico figlio dei bisnonni, Gilberto, che aveva sposato la dolcissima Lidia Balzani, era morto da decenni. Lidia aveva sempre abitato lì. Contenta del desiderio della nipote, lei le aveva detto di scegliere ciò che preferiva. Giulia, pensando alle tante tavolate apparecchiate, dalla sua infanzia in poi, dove oltre a pietanze preparate con abilità si gustava un sapore di serenità e di allegria, aveva optato proprio per quei servizi, sperando così di continuare quella tradizione di buona cucina condita con armonia.
«Eccovi arrivate. Dopo l’acquazzone di ieri avete visto che splendida giornata abbiamo oggi? Sistematevi con calma, poi vi aspettiamo per pranzo. Non vi sarete ancora organizzate, immagino. Angiolina ha detto che vi preparerà qualcosa che vi piace molto.» Maddalena Marra, sposata Damonte, con il suo sorriso che racchiudeva tutto il calore del sud, aspettava la figlia e la nipote all’ingresso della casina.
«Mamma grazie, in effetti contavo sul fatto che ci avresti invitate. E cosa c’è di buono da mangiare?»
«Sorpresa! Lo vedrai. Margherita, che faccino cupo, vuoi venire su con me? Tua mamma ci raggiungerà fra poco.»
«D’accordo, nonna. Non ho nessuna fretta di riordinare le mie cose.»
«Bene, vi seguo appena possibile, ho proprio voglia di venire a sedermi sulla terrazza con tutti voi e rilassarmi un po’.»
Le due donne si avviarono a braccetto lungo il viale che portava alla villa.
«Tesoro, credo ci siano situazioni peggiori della tua.»
«Al momento non me ne viene in mente nessuna.»
«Be’, per esempio andare a vivere con tuo padre e la sua nuova compagna. In fondo tu e lei non avete poi così tanti anni di differenza o mi sbaglio?»
«Nonna, ti prego, questo sarebbe totalmente improponibile, mi domando cosa ci abbia trovato papà in quel – usando le parole della mamma – Bignami di Giurisprudenza inguainato in un vestito da Barbie.»
«È una domanda che in tanti si sono posti. Comunque credimi, questa vecchia casa ha ancora il suo fascino. Potrai invitare chi vorrai e ti assicuro che i tuoi amici non se lo faranno ripetere due volte. Mi ricordo che qui era un continuo via vai di gioventù, qualcuno veniva a studiare, prima con tua madre, anni dopo anche con tua zia, qualcun altro si fermava a mangiare o, d’estate, a fare un bagno in piscina; c’erano tanta allegria e movimento. Devo ammettere che mi mancavano. Ora, con il vostro arrivo, magari in modo diverso, spero ritornerà l’animazione che mi piaceva tanto.»
«Non ci conterei troppo, i miei amici sono un po’ difficili.»
«Staremo a vedere.»
Giulia si era fermata sulla soglia a guardarsi intorno. Si trovava in quello che per quasi un secolo era stato l’alloggio dei custodi. Poi i tempi erano cambiati, il personale drasticamente ridotto e i locali lasciati vuoti.
Ora avevano ripreso vita. Aveva scelto lei sola i colori, i tessuti e le poche cose d’arredamento che mancavano. Molte infatti erano state ridipinte e utilizzate. Aveva cercato di coinvolgere Margherita, ma sua figlia, coerente con il fatto che non avrebbe voluto trasferirsi, si era rifiutata di partecipare a qualsiasi decisione. Giulia aveva dato una ventata di freschezza al villino, ma in realtà aveva voluto scrollarsi di dosso l’austerità e il rigore che, entrando a far parte della famiglia Aicardi, aveva accettato avvertendone però una sempre crescente oppressione.
Il piano terra era formato da un unico grande locale con pavimento a cementine di colore rosso lucidate a cera, originali dell’epoca della sua costruzione. Nel tempo nessuno aveva messo mano al piccolo fabbricato e Giulia aveva saputo mantenerne la semplicità mescolata però con un po’ di effervescenza. Entrando sulla sinistra della stanza c’era una grande nicchia a volta, ideale per sistemare una piccola zona cucina; la parete laterale della cucina era stata tappezzato con una carta dell’intramontabile ditta inglese Sanderson che riproduceva un’allegra madia traboccante di piatti, piattini, tazzine e vasetti. Davanti all’ingannevole credenza stava un vecchio tavolo di legno massiccio circondato da sedie recuperate qua e là, di foggia diversa una dall’altra. Sulla parete di destra, al centro, dominava un camino in pietra grigia perfettamente funzionante di fronte al quale un comodo divano e due poltrone completavano l’arredamento. Sul fondo, una scala, anch’essa in pietra, portava al primo piano.
Qui c’erano due stanze che Giulia non aveva toccato e un bagno sufficientemente grande per essere diviso in due bagni più piccoli. Aveva fatto rivestire le camere con tappezzerie di un turchese chiaro: in una spiccavano peonie di diverse tonalità di rosa e rosso, nell’altra volavano variopinti uccellini. Tutte e due le stanze davano una sensazione di vivacità e allegria.
Una volta realizzato che lei ed Enzo in comune avevano ormai solo il tubetto del dentifricio e che una separazione era diventata, oltre che inevitabile, necessaria, era sorto il problema del dove trasferirsi, visto appunto che nessuno dei due era intenzionato a restare in quell’abitazione.
A differenza di Enzo, Giulia avrebbe dovuto cercarsi anche un nuovo studio e ricominciare tutto da capo.
La proposta dei suoi genitori di riaprire il “villino” e di trasferirsi lì era arrivata inaspettata quanto provvidenziale. Per un momento aveva pensato che forse avrebbe fatto un passo indietro, quasi un ritorno sotto l’ala protettiva della famiglia, ma fu una considerazione fugace. Era una persona pratica e i lati positivi, si rendeva conto, superavano di gran lunga quelli che potevano considerarsi negativi. A parte il costo iniziale per la sistemazione interna che lei voleva assumersi, non avrebbe avuto affitto da pagare e questo le avrebbe consentito di pensare serenamente a un ufficio dove sistemarsi; senza contare che la vicinanza dei suoi genitori ancora così dinamici sarebbe stato un importante riferimento per sua figlia.
E poi c’era il legame che la univa a quel luogo.
Il suo bisnonno, il comandante Giovanni Damonte, aveva fatto erigere quella secolare dimora solida, spaziosa, addossata alla collina e rivolta verso il Mediterraneo perché potesse dargli tutte le comodità e gli agi ai quali doveva rinunciare nei lunghi mesi di navigazione. Per Giulia era invece esattamente il contrario. Era la sua nave. Il vascello che non temeva né le giornate di immobile bonaccia, né le tempeste più violente; imperturbabile solcava avversità e letizie, traversie e soddisfazioni e arrivava sempre a buttare l’ancora in rada o le funi sulla banchina per avvolgerle strette alle bitte e, finalmente al sicuro, godersi il lento e carezzevole rollio dell’ormeggio.
Su quella nave aveva spalancato i suoi occhi colore dell’acquamarina, era cresciuta respirando il mare che, a folate, arrivava mescolandosi all’essenza dei pini e dei cipressi d’inverno o intriso di fiori quando la primavera riempiva l’aria tutt’intorno. Lì aveva indossato un lungo e morbido abito bianco e, lasciandosi alle spalle la spensieratezza della gioventù, era scesa a terra per andare incontro a una nuova elettrizzante vita con lo slancio di una donna.
Un’ultima occhiata alla sua nuova sistemazione; sì, le piaceva tutto e, una volta riordinati anche gli scatoloni appena scaricati, sarebbe stato esattamente come se lo era immaginato.
Adesso si sentiva improvvisamente stanca, una spossatezza incredibile, la tensione dei mesi passati, le discussioni, le decisioni, i preparativi. Era un po’ come se avesse stipato quasi vent’anni della sua vita in un container e lo avesse consegnato alla Blumarine Italia Spa di Genova. Che lo portasse dove voleva, non le apparteneva più.
Aveva chiuso la porta di ingresso e, pensando di aver diritto anche lei a una meritata pausa, si era avviata verso la terrazza della villa da dove venivano suoni di voci e risate.
Non aveva fatto il giro dall’esterno seguendo i vialetti che portavano direttamente sul fronte della casa, ma era passata dal retro e aveva raggiunto la cucina entrando dalla porta di servizio. Aleggiava un delizioso profumo di cibo.
«Allora, Angiolina, cosa ci hai preparato di buono?»
«Che resotu che ti me fato pigiò, ciou bella, a vo preparou e anciue pinne i giancheti friti e le tumote dell’ortu.»
«Fantastico le sarde ripiene non le faccio mai e i pescetti fritti li adoro, fanne tanti!»
«Fassu quelli che gho.»
Angiolina era esattamente quel che si definisce “una forza della natura”, piccola, secca, con i sottili capelli bianchi raccolti in uno stretto chignon sulla nuca. Portava dei leggeri orecchini a pendente e indossava lunghe e ampie gonne nere o grigie; il mento aguzzo, il naso pronunciato, e la voce leggermente stridula completavano la sua straordinaria somiglianza con la strega di Biancaneve; lei però era buona.
Lavorava lì, per l’intera giornata, da sempre. Neppure nonna Lidia ricordava più chi, delle due, fosse arrivata prima, se lei quando aveva sposato Gilberto o Angiolina fidanzata con Carlo, il giardiniere. Nonostante l’età, che nessuno più s’azzardava a calcolare, non si risparmiava in nulla.
Una mattina era arrivata speditamente in cucina:
«Scù scignua che a me dagghe a ciave che vaddu zu a arvighe u cancellu.»
«Oh, grazie Angiolina, è vero stamattina nessuno è sceso, ci siamo dimenticati. Mah… se è chiuso come ha fatto a entrare?»
«Oh, mi o scavalcau.»
Aveva preso il mazzo di chiavi e si era riavviata lungo il viale lasciando i presenti ammutoliti.
«A sun cuntenta che sei arrivao ughe saia in po de muvimentu, semmu tutti vegi.»
«Proprio tu lo dici, così avrai più da fare!»
«Finche u Seniu u me daia a forsa mi avaggu avanti tra in po’ u le pruntu.»
«Allora vado a salutare papà e nonna Lidia, non li ho ancora visti e li porto tutti a tavola.»
Così dicendo Giulia uscì dalla porta finestra che collegava direttamente la cucina con l’esterno dove, sotto gli ampi rami di un pino marittimo, era sistemato un grande tavolo in ferro già apparecchiato per il pranzo.
Fece solo pochi passi prima che lo scenario davanti a lei la costringesse a fermarsi; aveva dimenticato quanto suggestiva fosse la vista del golfo da quella terrazza protesa sul mare a settembre, quando l’aria torna trasparente e i colori ritrovano tutta la loro intensità dopo il calore dell’agosto.
Dal matrimonio con Enzo in poi, per amor suo, e per evitare contrasti, Giulia aveva cercato di assecondare il marito nelle sue scelte, scelte che non includevano mai la sua famiglia.
Il “Circolo del Golf e Tennis” era sicuramente una delle mete preferite, così lei aveva imparato a giocare a golf, le piaceva ed era anche diventata davvero brava; aveva detto no al tennis, ma seguiva le esibizioni del consorte da bordo campo e partecipava, anche se sempre con minor entusiasmo, a premiazioni, cene, aperitivi o altre manifestazioni organizzate che si tenevano nella raffinata club house del circolo stesso.
Sapendo quanto Enzo ci tenesse, non declinava neppure gli inviti dei suoceri nella moderna villa alle Cinque Terre o nel prestigioso appartamento di Genova. Ogni volta, però, provava la stessa sensazione di disagio quando si guardava intorno e vedeva ogni oggetto perfettamente in ordine, non un cuscino sgualcito, non una rivista fuori posto, non un fiore secco nei mazzi sistemati nelle varie sale; sembrava l’allestimento per un servizio fotografico su qualche prestigiosa rivista d’arredamento. Una volta le era venuta la tentazione di camminare sulle punte per evitare che i tacchetti a spillo delle scarpe che indossava potessero lasciare dei rovinosi segni sul parquet perfettamente lucido, ma si era astenuta. Tutta quella ricercatezza, quasi maniacale, esprimeva, secondo lei, una totale mancanza di calore, un gelido distacco tangibile anche nell’agire quotidiano.
Nel corso degli anni, le visite a Villa delle Grazie si erano diradate sempre più, lasciando il posto a confuse e zoppicanti scuse per le prolungate assenze.
Guardando verso l’orizzonte terso e senza barriere, Giulia si domandò come fosse arrivata a lasciarsi sfuggire di mano quelle che erano le sue aspettative, i suoi ideali, le sue ambizioni, e senza rendersene conto mettere a tacere i suoi sogni e negare l’evidenza di un marito che si allontanava sempre più da lei.
Ma avrebbe cercato le risposte in un altro momento, ora contava una cosa sola: stava ritrovando se stessa; dopo le bufere dei mesi passati era pronta a risalire a bordo della sua nave più matura, più disincantata, ferita, ma anche più forte e determinata a riprendere il mare, questa volta con sua figlia, verso un futuro che ignorava ma che voleva conoscere.
«Nonna, papà, ciao a tutti!»
Si era avvicinata al padre, lo aveva baciato affettuosamente, e poi aveva abbracciato la nonna.
«Nonna come stai? Sei sempre un fiore!»
«È arrivata la mia dolce adulatrice! Ciao cara, finalmente ho il piacere di riaverti qui; a parte i miei soliti acciacchi posso dire che sto bene e poi i tuoi genitori mi curano fin troppo, sono contenta che adesso abbiano qualcun altro a cui rivolgere le loro attenzioni e non solo a una novantenne un po’ sorda e piena di ricordi.»
«Intanto bari nonna perché novant’anni li compirai l’anno prossimo e poi, in questo la mamma ha ragione, non so come fai, ma hai uno spirito che la fai in barba a tanti giovani.»
La voce argentina di Margherita si era fatta sentire e dal tono spensierato Giulia comprese che la ragazza, almeno per il momento, aveva optato per una tregua.
«Mi dedico ancora alla musica e ai fiori, le mie passioni. Sai, te lo avrò già detto chissà quante volte, ma non mi stanco mai di ripeterlo: la musica è il nutrimento dell’anima, non è una frase fatta o un modo di dire, la musica è un balsamo per la nostra serenità interiore e dovremmo ascoltarla fin da quando siamo nel grembo di nostra madre; ben pochi però ne sono davvero convinti e questo è un grande peccato per tutti.»
«Ma alua cusse stei a spetoo? Cu venie tuttu freidu? Vegni a toua.» L’anziana donna era comparsa con un cipiglio severo e le mani posate sui fianchi.
«Angiolina, scusa, mi sono completamente dimenticata di avvisare che era pronto!»