Titolo: Un po' di Roma
Autore: Alessandro Sacchi
Editore: Edizioni Fioranna
Luogo di pubblicazione: Napoli
Collana: Le Perle (La Perla Oro)
Lingua: Italiano
Maggio 1870. Venti di guerra spirano in Europa tra secondo Impero di Napoleone III e la Prussia di Bismarck. In uno scenario in cui tutti gli spettatori rischiano di diventare protagonisti o vittime, rientra in Italia da una missione in India, frettolosamente convocato dai suoi superiori, un gesuita napoletano il quale dovrà, districandosi tra personaggi veri e di fantasia che ruotano intorno ad una vicenda verosimile, cercare di limitare le eventuali ricadute negative per la Chiesa ed il Papato. La storia si svolge fra Goa in India, Roma e Napoli, città natale del protagonista, con un largo spaccato sulla vita e la realtà napoletana dell’epoca. Sentimenti, affetti familiari, giochi di potere e sottili strategie politiche si intrecciano e si sviluppano in modo serrato e sono in grado di generare nel lettore l’attesa di conoscere la risoluzione della storia.
Primo capitolo
Capitolo I
La vista del versante meridionale del Vesuvio non scatenò le emozioni che aveva preventivato nel progettare il viaggio. Aveva chiesto al Nostromo di servizio sul brigantino partito sette giorni prima da Costantinopoli di svegliarlo quando avessero avvistato Capri, per godersi la fresca brezza di quel mattino di fine maggio, ma nemmeno la compagnia di un branco di stenelle, che aveva scortato il legno per diverse miglia, poté sollevare il suo animo contrariato per la partenza ordinatagli.
Padre Salvatore d’Alessandro S.J., trentacinque anni appena compiuti, più della metà dei quali trascorsi nella Compagnia di Gesù, sua casa e sua famiglia, aveva lasciato Napoli, dov’era nato, per girovagare da Roma, dove si era compiuta la sua formazione militar-monastica, a Lisbona e di lì, attraverso molte case dell’Ordine in Europa ed Asia, a Goa, possedimento della corona del Portogallo nella penisola indiana, in cui avrebbe dovuto trascorrere sei settimane, e dove era rimasto dodici anni.
Il lungo periodo vissuto nella colonia portoghese l’aveva forgiato a blindare i suoi pensieri, per sottoporre dubbi e ragionamenti solo a se stesso. Usava il portoghese per parlare con le autorità, il konkani con i nativi ed il latino con i confratelli, ma aveva continuato a pensare in italiano, anzi in quel napoletano letterario che nella ex capitale delle Due Sicilie era appannaggio delle classi colte. Di corporatura robusta, ed appena un po’ stempiato, aveva compensato l’ampliamento della fronte con i baffi, residuo di una barba che appena giunto in missione aveva voluto farsi crescere, ma alla quale aveva dovuto rinunziare, per non patire maggiormente la calura e per non avere un aspetto da patriota liberale. In compenso i soli baffi gli consentivano di radersi a giorni alterni.
Le pratiche ignaziane non avevano fatto di lui un asceta, e le sue letture non lo rendevano un teologo.
La sua formazione aveva avuto il privilegio di una patente di lettura dei libri all’Indice, da parte del Sant’Uffizio, privilegio da lui esercitato spesso e volentieri, come tanti suoi confratelli, ai quali il Sant’Uffizio lo concedeva nella certezza che, se fosse stato negato, i gesuiti avrebbero letto lo stesso i volumi proibiti.
Il suo doversi confrontare con interlocutori così diversi da lui e fra loro, lo aveva reso scaltro nella conversazione, prudente ma risoluto, e molto prezioso per le gerarchie dell’Ordine che, da quando Padre Pierre-Jean De Beckx era stato eletto Generale, lo avevano utilizzato, senza mai conferirgli incarichi ufficiali, e che lo tenevano d’occhio come una preziosa risorsa.
La manovra di attracco nel Porto di Napoli fu complicata dalla totale assenza di vento e fu necessario l’intervento di barche con rematori con delle funi per accostare lo scafo al molo. Sbrigate senza difficoltà le pratiche doganali, ed inviato il suo scarso bagaglio con un carretto al palazzo della Strada di Chiaia dove era nato e dove ancora viveva ciò che rimaneva della sua famiglia, decise di raggiungerlo a piedi, pensando di ritrovare lungo la strada qualche pensiero della sua gioventù.
La città era molto cambiata, da quando l’aveva vista l’ultima volta, tredici anni prima, partendo via mare per Valencia, ed il panorama già da mare aveva rivelato un fiorire di costruzioni verso la collina di Posillipo, che non esistevano prima, e quello che lui ricordava come un vasto arenile, era adesso una vera e propria strada, tra la Villa Reale ed il mare, percorsa da carrozze e vetture di ogni tipo e velocità.
Non riconobbe nessuna delle persone incontrate, né l’aveva sperato. Scegliendo di non indossare la tonaca, abitudine consolidata negli anni trascorsi all’estero, poté confondersi tra i passanti appiedati, la maggior parte dei quali popolani, che sembravano non avere nulla da fare.
Popolani. Sarebbe stato più appropriato definirli plebe. C’era, in fondo, più di una similitudine con le masse miserabili che aveva lasciato a Goa e si spiegava il perché non era riuscito a provare disagio se non orrore, giunto nelle colonie, alla vista di tanta desolante miseria. Gli ultimi si assomigliano.
Giunto all’angolo di S. Maria in Portico, fece una piccola deviazione, per entrare nella chiesa dove tredici anni prima aveva celebrato la messa in presenza dei suoi genitori e, per la prima volta da quando era sbarcato, ritrovò un ricordo nell’odore della cera fusa delle candele che rischiaravano l’oscurità delle cappelle laterali.
Si ritrovò nel grande cortile di Palazzo d’Alessandro, il cui antico portone era sormontato dallo stemma in piperno, e che gli sembrò recentemente restaurato nella facciata, e nel quale, attraverso le poche persiane verdi aperte, si intuiva che vi abitasse poca gente. Il portinaio, forse intimidito dall’abito scuro, dal bastone e dal cappello, non lo riconobbe, né poteva, essendo stato assunto solo nove anni prima, ma non gli domandò nulla. Salì le antiche scale di piperno fino al primo piano e dopo una breve esitazione nel soffermarsi a guardare le maniglie di bronzo della porta di casa sua, bussò.