Prato, 1905. In una fredda sera di settembre, mentre sul palco del Teatro Metastasio si consumano le ultime scene della “Traviata”, in una strada poco distante, una giovane cameriera, di rientro dal suo giorno di libertà, scopre il corpo della sua padrona in un lago di sangue. Chi ha ucciso Violetta Marconi, esperta traduttrice per corrispondenze commerciali con la Francia e additata, da molte mogli tradite, di essere una donna di piacere? È la domanda che ossessiona il maresciallo dei Carabinieri Reali, Giorgio Chilleri, su cui grava l’onta di non aver saputo risolvere, appena un anno prima, il misterioso caso di una donna trovata impiccata in un campo di ulivi fuori città. E l’ossessione e la paura di un nuovo fallimento crescono a dismisura, quando il maresciallo si trova a fare i conti con una lunga e ingarbugliata lista di sospettati che include i nomi in vista dell’industria tessile, del commercio e della politica cittadina. Non ci sono testimoni diretti, ma solo voci, chiacchiericci, insinuazioni. Unico indizio, il frammento di un messaggio firmato “La vostra adirata Violetta” che fa pensare alle ipotesi più diverse. Ma ogni volta che il maresciallo Chilleri e il suo fidato collaboratore, il brigadiere Valenti, credono di aver individuato il colpevole, gli indizi accusatori si rivelano inesatti e infondati. Sarà difficile per il maresciallo Chilleri decifrare il mistero di un omicidio che è frutto dei peggiori istinti e sentimenti umani.
Primo capitolo1.
L’aria era frizzante, pizzicava le gote. O forse, a renderla più sensibile al freddo, era la sottile inquietudine che le procurava il silenzio della via deserta. Fosse quel che fosse, Paola Mariani sollevò un lembo dello scialle, se lo girò intorno al collo e accelerò il moto delle gambe.
Ora, con quella cadenza, con soli tre passi poteva attraversare il cerchio di luce giallastra che i lampioni a gas proiettavano sul selciato. Poi gliene servivano altri quattro per superare i tratti di strada buia e rimettere piede sulle pietre rischiarate da un nuovo occhio luminoso. In quei quattro passi mossi dentro l’oscurità il picchiettare dei suoi tacchi contro il basolato di via Santa Trinita, che il silenzio amplificava a dismisura, all’orecchio le risuonava sinistro, come il pulsare vagamente agitato del suo cuore. Non poteva dire di provare paura, questo no. Semmai avvertiva un senso di disagio… Sì, ecco, si sentiva a disagio. E per scacciare quella sgradevole sensazione che le faceva percepire più freddo di quanto non fosse nella realtà, per ripararsi meglio, incurvò le spalle e si fece più piccola dentro lo scialle.
Giunta in prossimità di piazza XX Settembre, le parve strano, anzi addirittura inconcepibile, di non aver ancora incrociato anima viva lungo il tragitto che già si era lasciata alle spalle. Ma, come per il freddo, anche quella percezione era falsata e ingigantita dal senso di disagio che ormai la possedeva tutta. Non lontano da lì, in via Carbonaia, aveva infatti intravisto due vecchi ubriaconi gesticolare dentro a una bettola lurida e quasi buia, un buco d’osteria che emanava tanfo di vino sia di giorno che di notte, con il sole e la tempesta, sette giorni su sette. Eppure, ora, quelle due presenze erano svanite completamente dalla sua mente.
Ma poi, d’un tratto, si rammentò che al teatro, quella sera, davano l’opera. I nobili e i borghesi, giovanotti compresi, e che amassero o aborrissero il canto non aveva importanza, erano ancora tutti seduti in platea o nei palchi del Metastasio. Nessuno di loro sarebbe mai mancato a uno dei rari appuntamenti mondani cittadini. E anche i poveracci, loro accalcati nel loggione, che con poche lire non potevano permettersi posti migliori, erano andati a godersi lo spettacolo. Sì, non poteva spiegarsi altrimenti, considerò tra sé e sé la frettolosa e inquieta Paola, l’assenza totale di passanti.
A quel pensiero, per un istante, si sentì rinfrancata.
Svoltata nel buio più fitto di via Cambioni, però, ripiombò subito nelle voragini del suo disagio. Anche perché, laggiù in fondo, proprio davanti a lei, in direzione di San Niccolò, udì l’eco inatteso di uno scalpiccio irregolare… Rallentò il passo e strizzò gli occhi, come un gatto. Per il tempo di un battito di ciglia percepì la presenza di un’ombra che, improvvisa e indistinguibile, scomparve in un baleno dietro l’angolo con via Cicognini. Rabbrividì.
Per fortuna, le mancavano solo gli ultimi cinque passi. Li percorse quasi correndo, con la chiave di casa già stretta nella mano. Ma, giunta davanti al portone, impietrì. Un nodo alla gola le tolse il fiato e una sequela inarrestabile di domande cominciò a rimbombarle nella testa: perché il portone è socchiuso? Perché la lanterna sulle scale è spenta? Chi era quell’ombra in fuga? Ed era da qui che fuggiva? Perché…
Un soffio cupo e prolungato, seguito da uno schiocco e da qualcosa che le sfrecciava in mezzo ai piedi, inaridì d’un colpo la fonte di tutti quegli interrogativi.
Un gatto, un maledetto gatto, imprecò in silenzio Paola, intercettando per un secondo la figura scura del felino che balzava verso l’altro lato della strada all’inseguimento di una preda. Doveva essere un topo. È di sicuro un topo schifoso, pensò Paola respirando affannosamente a occhi socchiusi.
— Finiremo divorati dai topi — sibilò tra i denti, sottovoce, dopo un istante.
Per scacciare il senso di disgusto e questa volta, sì, di paura, alla stregua di un cane gocciolante appena uscito dall’acqua, scrollò le spalle e la testa, s’infilò di slancio dentro l’atrio della casa, e si sbatté il portone dietro le spalle.
Immersa nel buio più totale, ma avendo precisa memoria della disposizione degli arredi e della struttura della casa, si spostò a sinistra e protese in avanti le mani. Quando i palmi incontrarono il solido legno di quercia della credenza, sospirò di sollievo. Tastò con tocchi leggeri il ripiano, in cerca della scatola dei fiammiferi e della bugia con la candela. Dopo alcuni attimi, al fioco e tranquillizzante chiarore della fiammella, si avviò lungo le scale che portavano al piccolo, vezzoso e confortevole appartamento di Violetta Marconi, la donna presso la quale prestava servizio come cameriera da quasi dieci anni.
Arrivata nel corridoio, appoggiò la bugia sulla stretta mensola dell’attaccapanni a muro e si avviò verso il salotto, dalla cui porta aperta giungeva un fascio di luce. La signora Violetta, valutò Paola soppesando il profondo silenzio che regnava nella casa, doveva essere immersa nella lettura. Era il suo passatempo del sabato. Nel giorno di libertà della cameriera, infatti, anche lei si prendeva una pausa dagli affari e si abbandonava ai sogni descritti nelle pagine dei romanzi.
Tuttavia, a questo punto della storia, vale la pena annotare che in città molti contestavano che il termine “affari” fosse il più appropriato da accostare al nome di Violetta Marconi. Su di lei, infatti, si faceva un gran chiacchierare a suon di insinuazioni e maldicenze. Ma non era di certo a quelle dicerie che Paola pensava quando fece il suo ingresso nella stanza. Né le venne in mente di pensarci quando, fatti due passi in direzione del sofà, vide la padrona abbandonata in modo innaturale sui cuscini. Si avvicinò d’un altro passo e, con la coda dell’occhio, notò una chiazza di sangue sulla spalla destra della donna.
Si coprì il volto con le mani e iniziò a gridare.