Ci sono momenti in cui è impossibile trattenere dentro di sé emozioni e pensieri, e allora è giusto urlarli a voce spiegata, perché gli altri sentano, riflettano e, forse, comprendano.
Con questa silloge poetica, Abdoulaye Thiam ci fa partecipi del suo orgoglio di essere africano e delle tradizioni di un grande continente, ma anche della sua rabbia, dell’umiliazione di un profugo che, senza colpa, ha dovuto lasciare le sue terre violentate dalle multinazionali, quell’Africa ricca ma le cui risorse non vanno a favore del suo popolo.
Anche l’amore diventa un urlo, la tenerezza per una donna, il bisogno di fraternità, il rimpianto struggente per la madre scomparsa. Infine, ad alta voce, ci dice le sue speranze per un futuro di pace e di prosperità, di un mondo pacifico e solidale in cui i bambini non siano più costretti ad imbracciare armi, ma non soffrano la fame, non muoiano di malattie infantili, vadano tutti a scuola.
E ci dice anche dov’è rimasto il suo cuore. Perché una persona può espatriare, ma il suo cuore no.
Primo capitolo
SOGNO
Di vivere l’unità africana,
di parlare nelle istituzioni
una lingua africana,
di dare e ricevere
moneta africana.
Sogno il giorno in cui
i bambini africani non moriranno
di malattie infantili,
mangeranno quando saranno affamati,
andranno tutti a scuola.
Presto arriverà il giorno in cui
gli uomini saranno giudicati senza pregiudizi,
saranno accolti come fratelli nel mondo,
parleranno agli altri da pari a pari.
Vedo in fondo al tunnel
la luce della speranza.
Gli Africani prenderanno
il loro destino in mano
e il mondo diventerà umano,
solidale,
pacifico.