Ogni colore è accecante, ogni odore nauseante, ogni rumore assordante. L’autismo imprigiona Stefano in un mondo di dati sensoriali esasperati, in cui le percezioni hanno un’intensità insostenibile. Per questo, nonostante sia un uomo adulto, solo una casa disegnata su misura e la vicinanza di Sara riescono a tracciare dei confini sicuri intorno a lui.
Quando nella casa accanto arriva Viola, la musica di Mozart irrompe nella sua esistenza, portando con sé una nuova, inaudita sensualità. Tra lui e la giovane pianista inizia un reciproco addomesticamento dietro lo schermo di una siepe fiorita e Sara trova finalmente lo spazio e il tempo per aprirsi alla possibilità di un amore congelato da anni con Lorenzo, un timido architetto di giardini, capace di far fiorire i ciliegi.
Come la primavera coi ciliegi si propone di far entrare il lettore nei panni del protagonista, dei suoi familiari, di coloro che vengono in contatto con lui, con le contraddizioni, le gioie e le sofferenze che questo comporta.
Il romanzo è stato finalista al V Premio internazionale di letteratura Città di Como – 2018, sezione Narrativa inedita.
Primo capitolo
I colpi secchi delle prime gocce lo avevano svegliato alle 23:18.
Il ticchettio della pioggia si era fatto sempre più veloce, fino a esplodere in un frastuono sordo, amplificato dalla cassa di risonanza del sottotetto.
I goccioloni ostinati avevano percosso la superficie argillosa, resa impermeabile dalla siccità invernale. Alle 23:39, avevano infine frantumato la crosta grigia, aprendosi una strada verso le radici più profonde.
Alle 00:17, uno schiocco improvviso. La larva del maggiolino aveva schiuso le zampe, srotolando il corpo, bianco come una mora di gelso, e si era guardata la punta blu della coda. Dopo un minuto e 16 secondi, Stefano aveva percepito il pigro dipanarsi dei grovigli di lombrichi. Annaspando per la mancanza d’ossigeno, i sinuosi vermi rosa avevano lentamente raggiunto la superficie, risvegliando i ruvidi scricchiolii delle particelle di humus e argilla. Il più veloce ci aveva messo 54 minuti. Gli altri lo avevano seguito a intervalli irregolari per tutta la notte.
Il tamburellare della pioggia si era zittito solo alle 2:47.
I merli, assopiti sui rami del ciliegio, avevano mosso le zampe nel sonno, pregustando la ricca colazione, tra le prime pozzanghere di aprile.
Alle 4:38, le gemme del salice avevano cominciato a crepitare. Fenditure sottili avevano percorso la scorza bruna, sotto la pressione della peluria d’argento. Il primo gattino? si era schiuso alle 5:17 e subito erano seguiti migliaia di microscopici scoppiettii.
Stefano era sfinito e assetato, come dopo una notte di febbre.
Da bambino, la prima pioggia di primavera lo riempiva di terrore.
Non capiva da dove venissero tutti quegli oscuri sussurri. Credeva che qualcuno stesse bussando alla finestra o tentando di forzare la porta. Infilava la testa sotto il cuscino, ma inutilmente. Non era con le orecchie che sentiva tutto quel fermento, ma col tatto, in una sorta di sgradevole contrazione dei polpastrelli.
Finché, un giorno, in un documentario televisivo, Stefano aveva sentito i suoni del risveglio primaverile di piante e insetti, amplificati fino a renderli udibili, e aveva subito riconosciuto le sue voci notturne.
Si alzò a sedere sul letto, i muscoli ancora appesantiti dal torpore.
Dalla cucina arrivavano un tintinnare di stoviglie e un’eco di passi: Sara doveva essere in piedi da un pezzo. Sulla parete, tremava un arcobaleno. Il sole era già abbastanza alto da colpire il piccolo prisma appeso al bordo della finestra.
La sveglia confermò: le 7:32.
Con cautela, appoggiò i piedi sul pavimento. Le mani sfiorarono il bordo del letto, perfettamente levigato e arrotondato. Il respiro divenne più calmo. Sara aveva fatto smussare ogni spigolo, perfino quelli delle porte, così che i mobili non fossero più in agguato, pronti a fargli male.
Si alzò e si avvicinò alla finestra. La seta finissima delle tende modulava i raggi del sole, perché la luce del mattino non gli aggredisse gli occhi. Oltre i vetri, il verde riempiva il giardino e dilagava giù per il pendio, fino a tingere le acque del lago. Le finestrelle della soffitta della casa di fronte lo fissarono coi loro occhi vuoti. Richiuse la tenda di scatto.
Con la lenta, minuziosa serie di gesti cristallizzati negli anni, si lavò, si vestì, si pettinò:
Alle 8:26, scese finalmente in cucina.
Sara trafficava davanti al vassoio delle medicine.
– Buongiorno, – sorrise.
– Non riesco più a prepararti il pranzo, ormai, – si scusò lui.
– Non importa, mi arrangerò, – rispose Sara, accarezzandogli la guancia. – Ho sentito che hai avuto una notte dura… È arrivata la primavera?
Stefano annuì.
– Ricordati di prendere le medicine, – riprese Sara, – queste prima di pranzo e queste nel pomeriggio, mi raccomando.
Stefano guardò le pastiglie colorate.
– Perché non resti a casa? – chiese. – Non abbiamo bisogno che tu lavori…
Sara sciacquò nel lavandino la sua tazza.
– Il mio lavoro mi piace…
– Potresti lavorare da casa… C’è lo studio e io non ti disturberei, te lo prometto.
Sara si asciugò le mani.
– Ne abbiamo già parlato, Stefano…
Stefano mise il bollitore sul fornello.
Fuori dalla finestra, si intravedeva la bassa siepe fiorita. Tra i tralci della clematide, faceva capolino il muro arancione della casa accanto, illuminato dal primo sole.
– Se venisse qualcuno ad abitare lì, resteresti a casa? – chiese Stefano.
Sara parve non capire.
– Non posso restare qui, in casa, da solo, se c’è qualcuno nella casa accanto, – spiegò Stefano. – Mi sentirei male.
Sara gli accarezzò una spalla.
– In tre anni non ci abbiamo mai visto nessuno. Non ci vengono nemmeno per le vacanze.
– Ma se ci venissero… – insistette Stefano. È VOLUTA QUESTA RIPETIZIONE?
– Devo scappare o farò tardi, – lo interruppe Sara.
Infilò la giacca e prese la cartella coi progetti.
– Ci vediamo alle cinque, – salutò, baciandolo sulla guancia.
Stefano la guardò aprire la porta.
– Sara…
Sara si voltò, la mano sulla maniglia.
– Se ho bisogno, ti posso chiamare?
– Ma certo, – sorrise lei, – puoi chiamarmi tutte le volte che vuoi.
*
I petali del grande ciliegio bordavano di pizzo il cielo di aprile. Il vecchio giardino, con i ciuffi gialli dei narcisi e il verde fresco dell’erba appena spuntata, sembrava vivere una nuova giovinezza.
– Ti ricordi quando l’abbiamo potato insieme? – chiese il vecchio.
Lorenzo sorrise.
– Avevo cinque anni… Mi hai preso sulle spalle per farmi tagliare i rami alti.
Il vecchio si sedette sul muretto al sole, aiutandosi col bastone.
– Ora mi devi prendere in spalla tu…
Lorenzo sfiorò con la punta delle dita il ramo fiorito. Sul grigio della corteccia, spiccava la scorza rosso scura delle gemme da cui facevano capolino i petali, così candidi da sembrare luminosi.
– E pensare che volevano abbatterlo, perché non faceva fiori… – continuò il vecchio. – Guardalo ora, che meraviglia! Tutti quelli che passano si fermano a guardarlo. I turisti gli fanno addirittura le foto!
– Dovemmo mettere il ticket al cancello, – bofonchiò la moglie, affacciandosi in giardino.
Il vecchio fece segno di ignorarla.
– A sentire tua nonna, dovremmo asfaltare tutto e fare un parcheggio. Finché son vivo io, qui solo fiori e piante, ricordatelo!
La donna salutò il nipote con una carezza ruvida.
– Vieni a vangargli l’orto stasera, per piacere, o mi fa diventare matta!
– C’è la luna buona? – chiese Lorenzo.
– Son troppo vecchio per aspettare la luna, – rispose il nonno, – per me la luna è sempre buona.
Il bastone disegnò un complicato ghirigoro nella terra ancora umida.
– È vera questa storia che vai in Inghilterra? – chiese.
Lorenzo si aggiustò gli occhiali sul naso.
– Non… non c’è ancora niente di sicuro…
Il vecchio annuì in silenzio.
– Di sicuro non ti faranno andare in studio con quelle scarpe, – lo rimproverò la nonna, indicando gli scarponi.
– Sono le scarpe di uno che lavora, – intervenne il vecchio, – e di uno che cammina. Due cose che fanno un uomo.
La nonna si appoggiò al braccio del nipote.
– Oggi va così. Ogni parola è una sentenza.
Lorenzo sorrise.
– Ci vediamo stasera, allora.
Il vecchio fece un cenno di saluto, mentre Lorenzo richiudeva il cancello dietro di sé.
La nonna alzò lo sguardo ai rami del ciliegio. Il vecchio albero sembrava una gigantessa in abito da sposa.
– Ma quale sarà il problema? – sospirò.
Il vecchio si voltò a guardarla.
– Quale problema?
– È un bravo ragazzo, ha un buon lavoro, è anche bello…
Guardò il marito, scuotendo la testa.
– Ha già trentadue anni. Ma perché non si sposa?